L’inferno sulla Terra. Il 6 aprile 1994, in Ruanda, si iniziava a scrivere con fiumi di sangue una delle pagine più drammatiche della storia dell’umanità. Nel Paese africano in circa tre mesi il conflitto tra Tutsi e Hutu provocò la morte di un milione di persone. Non si trattò di uno “scontro tribale”, come più volte qualcuno volle rimarcare, ma di un genocidio pianificato con ragioni di carattere storico. Testimone di quella mattanza fu la magistrata Silvana Arbia, che rivestì il ruolo di Prosecutor nel Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (TPIR), ottenendo importanti condanne contro i responsabili del genocidio ruandese.

Eccellenza, qual è il suo ricordo umano e professionale della tragedia consumatasi trent’anni fa in Ruanda?

Il ricordo d’obbligo sul piano umano e su quello professionale è l’evento occorso nella sera del 6 aprile 1994, quando l'aereo che trasportava Juvénal Habyarimana, presidente del Ruanda, e Cyprien Ntaryamira, presidente del Burundi, fu abbattuto sopra Kigali, con l’avvio dell’esecuzione del piano genocidario che si opponeva a soluzioni di spartizione del potere prospettate negli Accordi di Arusha per porre fine al conflitto armato tra il Fronte Patriottico Ruandese e il governo ruandese. Il 6 aprile 1994 è una data che, da un lato, mi unisce umanamente al popolo ruandese, che la ricorda ogni anno onorando le vittime e rafforzando l’impegno per un futuro di riconciliazione e di pace, da un altro lato, mi ricorda le tantissime volte che a quella data si è fatto riferimento nello svolgimento delle indagini, nelle aule del TPIR, nelle testimonianze e negli atti processuali.

Il 6 aprile del 1994 segna l’inizio di una nuova pagina per l’umanità?

È l’inizio dei cento giorni più atroci della storia moderna per i massacri di civili Tutsi e Hutu moderati. Secondo dati ufficiali, tra 800.000 e un milione, di vittime, tasso quattro volte maggiore rispetto al culmine dell'Olocausto nazista, tenuto conto dell’entità della popolazione Tutsi presente all’epoca in Ruanda. E tutti i momenti vissuti tra il Ruanda e la Tanzania, al servizio della giustizia penale internazionale per quasi nove anni, sono per me, memoria preziosa che compensa gli enormi sforzi spesi, in solitudine, senza alcun sostegno e o riconoscimento del mio Paese, sostenuta da una forte determinazione di non lasciare impunito alcuno dei responsabili di quell’orrore. Memoria in cui gli aspetti umani e quelli professionali si sono sempre intrecciati. Cercare prove, vagliarne l’attendibilità, riuscendo a controllare l’esplosione naturale dello sdegno e della compassione, con il rigore delle procedure e l’esigenza di salvaguardare la migliore qualità della prova, unico e indispensabile mezzo per sostenere le accuse; guidare investigatori e sostituti procuratori di diverse nazionalità e di diverse culture giuridiche con rispetto ma con fermezza in vista dei risultati finali; formulare accuse, interpretando per la prima volta con entusiasmo per la novità, temperato dall’umiltà del giurista serio Convenzioni internazionali e lo scarno articolato dello Statuto istitutivo del TPIR; esaltarsi per il ruolo prestigioso che tuttavia costringeva a vivere in condizioni durissime, con pesanti limitazioni per ragioni di sicurezza, sono state le sfide quotidiane per affrontare le quali necessariamente si interagisce con altre persone. Ma mi consenta di fare un’altra riflessione.

Prego, dica pure.

Il 6 aprile 1994 è una data che ha cambiato profondamente la mia vita personale e professionale, dopo vent’anni anni di magistratura in Italia, lanciandomi a livello internazionale per quasi 14 anni, e ponendomi tra i pionieri della giustizia penale internazionale, al TPIR prima e alla Corte Penale Internazionale, poi, con ruoli che, per l’elevata integrità, per la continua ricerca del più elevato standard di professionalità, hanno illustrato il prestigio della magistratura e della cultura giuridica italiane, come riconosciuto a livello internazionale. Una realtà che il disconoscimento e la disattenzione del Csm e del ministero di Giustizia, al mio rientro in Italia, non hanno minimamente scalfito.

Gli strumenti del diritto internazionale sono riusciti ad assicurare i responsabili delle atrocità in Ruanda?

Certamente il capitolo VII della Carta Onu ha costituito una base giuridica forte per istituire e far funzionare i primi Tribunali penali internazionali, TPIR e Tribunale Penale Internazionale per l’ex Yugoslavia. Nonostante le difficoltà derivanti dalla mancata cooperazione degli Stati, dalla sua apertura nel 1995, alla sua chiusura il 31 dicembre 2015, il TPIR ha incriminato 93 persone ritenute responsabili di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Tra gli imputati figurano alti funzionari militari e governativi, politici, uomini d'affari, nonché religiosi, miliziani e leader dei media. È riconosciuto il ruolo pionieristico svolto dal TPIR nella creazione di un credibile, imparziale e indipendente sistema di giustizia penale internazionale. Il TPIR è il primo Tribunale internazionale in assoluto nella storia a emettere una sentenza in relazione al genocidio e il primo a interpretare la definizione di genocidio stabilita nella Convenzione internazionale del 1948 sulla prevenzione e repressione di tale crimine. È anche il primo Tribunale internazionale a definire lo stupro nel diritto penale internazionale e a riconoscere lo stupro come mezzo per perpetrare un genocidio. È il primo Tribunale a pronunciarsi sulla responsabilità per genocidio commesso attraverso l’istigazione diretta e pubblica con l’uso di trasmissioni via radio e televisione. Ha trattato un processo di estrema complessità processuale con oltre 700 udienze contro 6 imputati, tra i quali l’ex ministro per la Famiglia e la promozione della donna. L’unica donna imputata e condannata a livello internazionale, per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

Dal 1994 a oggi la giustizia internazionale ha fatto importanti passi in avanti?

Premesso che la giustizia internazionale, sull’interpretazione e sull’applicazione del diritto internazionale è demandata alla Corte internazionale di giustizia, organo dell’Onu, e che recentemente è stata richiesta di pronunciarsi sull’ipotizzata violazione del divieto dell’uso ingiustificato della forza, aggressione, e sulla ipotizzata violazione della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del genocidio, è grazie al lavoro dei due primi e unici Tribunali penali internazionali ad hoc che ha riguardato individui, che il diritto internazionale ha registrato una rapida e sostanziale affermazione della soggettività internazionale degli individui. Grazie a quel lavoro che gli Stati si sono convinti della necessità di non rinviare l’istituzione di una Corte Penale Internazionale permanente e complementare alle giurisdizioni nazionali, istituita con un trattato internazionale, lo Statuto di Roma, adottato il 17 luglio 1998. Il sistema di giustizia della CPI è particolarmente innovativo nel consentire la partecipazione delle vittime nei processi, garantendone il diritto a riparazione. Particolare sviluppo si registra nel miglioramento della protezione dei testimoni. Con particolare riguardo ai testimoni, vittime di crimini.

Anche la giustizia internazionale richiede interventi?

La scarsa cooperazione degli Stati rimane l’aspetto più preoccupante con necessità di interventi di adeguamento degli ordinamenti interni e di capacities building per giudici, avvocati, investigatori e altri operatori di giustizia, al duplice scopo di accelerare tempi e modi di cooperazione con la CPI, e di realizzare le condizioni per assolvere l’obbligo assunto con la ratifica dello Statuto di Roma di non lasciare impuniti autori di crimini internazionali, lasciando alla CPI i casi in cui vi è l’impossibilità o la non volontà di assolvere a tale obbligo.

Il ricorso alla giustizia internazionale è invocato dall’Ucraina, dopo l’aggressione militare da parte della Russia del 2022. È una prospettiva realizzabile?

L’aggressione che equivale al divieto dell’uso ingiustificato della forza è già all’esame della Corte Internazionale di Giustizia, competente a interpretare e applicare le fonti di diritto internazionale che tale divieto prevedono. È pure già in atto in Ucraina l’intervento della CPI, la cui giurisdizione era stata volontariamente accettata da questo Stato nel 2014. Due mandati di arresto sono stati emessi il 17 marzo 2023, contro Vladimir Putin e Marjia L’vova-Belova, per deportazione di minori, quale crimine di guerra. Tutti i crimini internazionali di competenza della CPI, commessi da cittadini russi in Ucraina e da cittadini ucraini dal 2014 in poi, sono suscettibili di essere perseguiti e puniti dalla stessa Corte Penale Internazionale, con esclusione del crimine di aggressione, che è perseguibile solo ove ricorrano condizioni particolari che non sussistono nella specie. Analoghe considerazioni valgono con riguardo alla situazione della Palestina.

La CIG sta esaminando la denuncia del Sud Africa contro Israele per presunta violazione della Convenzione sul genocidio con emanazione di misure cautelari provvisiorie e la CPI, di cui la Palestina è parte, sta svolgendo le necessarie operazioni per valutare la sussistenza delle condizioni per perseguire autori di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi da esponenti delle parti in conflitto. Ricordare il genocidio del Ruanda, dopo trent’anni anni, ha senso soltanto se le giurisdizioni nazionali e i governi sono preparati e convinti che i crimini internazionali, e il genocidio che tra essi è il più grave, se impuniti, costituiscono una grave minaccia per la sicurezza e la pace di tutti. Gli strumenti sono disponibili e quelli legali e giudiziari sono tra quelli che possono essere usati. La tragedia del 1994 ci insegna che prevenire il genocidio è possibile ed è un obbligo giuridico internazionale, che incombe sugli Stati e tutti devono vigilare affinché tale obbligo sia assolto. La mia coscienza è pacificata, perché ho fatto quanto potevo. Auguro al popolo ruandese un futuro benefico e una pace durevole e al mondo di essere guidato e governato con saggezza da leader responsabili e credibili.