Risultava necessario fornire una cornice coerente alla progressiva trasformazione del processo penale - avviata nel 1989 - da un'impostazione inquisitoria a una accusatoria. Nel corso dei decenni, però, ogni tentativo di armonizzazione tra processo e ordinamento è rimasta lettera morta.

Il primo paradosso di questa vicenda è che il primo governo a provare a smuovere le acque fu un governo di centrosinistra, con la Bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D'Alema, prima che la sinistra politica accettasse in toto le posizioni intransigenti delle toghe. Nel 1997, la Bicamerale adottò un documento passato agli atti come “bozza Boato” ( dal nome del parlamentare verde che lo redasse) che non a caso è stato citato più volte in questi ultimi giorni, nell'imminenza del Consiglio dei ministri di ieri che ha licenziato il ddl costituzionale.

Il documento Boato, in realtà, interveniva blandamente sulle carriere, non prevedendo una separazione e introducendo solo qualche paletto ai passaggi di funzione, che comunque restavano possibili. La vera novità nella proposta Boato era la previsione di un'Alta Corte per i provvedimenti disciplinari, in luogo dell'apposita sezione del Csm, una proposta ripresa varie volte nel corso degli anni, fino al ddl di ieri.

Naufragata la Bicamerale, i successivi tentativi hanno risentito della acerrima contrapposizione tra toghe e una parte del mondo politico, determinata dall'approdo al governo con una salda maggioranza da parte di Silvio Berlusconi, che investì della missione di riformare la giustizia il guardasigilli leghista Roberto Castelli, all'inizio del suo secondo esecutivo. Per velocizzare i tempi, evitando doppie letture e referendum, fu scelto lo strumento legislativo della legge delega, con una lunga serie di decreti attuativi che avrebbero dovuto essere approvati a cadenza annuale. Il cuore del provvedimento, anche in questo caso, consisteva nel porre dei limiti alle “porte girevoli”, ma si dovette optare per la formula della separazione delle funzioni, dopo che la prima versione del testo fu rinviata alle Camere dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, proprio perché quest'ultimo riteneva necessaria una legge costituzionale per separare il corpo giudiziario.

A inizio carriera ogni magistrato, secondo la delega, avrebbe dovuto sostenere, oltre ovviamente al concorso ( unico), un test psicoattitudinale (altra vexata quaestio, come dimostrano le polemiche delle scorse settimane per la sua parziale introduzione da parte dell'attuale ministro Nordio), in base al quale scegliere tra funzione inquirente o giudicante. Sarebbe stato possibile cambiare solo una volta, entro i primi cinque anni, previo corso di formazione, superamento dell'esame e cambio obbligatorio di distretto.

La caduta del governo Berlusconi e il ritorno di Romano Prodi a Palazzo Chigi, sostenuto da una maggioranza favorevole alle istanze della magistratura, fecero sì che il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, assolvesse alla missione di smontare la parte della riforma Castelli che rendeva più difficili i passaggi da una funzione all'altra. Si tolse l’obbligo di decidere entro i primi cinque anni, riportando sostanzialmente tutto allo status quo, ma nonostante questo l'introduzione di valutazioni periodiche e l’obbligo di frequenza della Scuola della magistratura posero in forte conflitto Mastella con l'Anm. Il governo cadde poi per il ritiro della fiducia da parte del partito dello stesso guardasigilli, la cui consorte fu oggetto di un provvedimento cautelare.

Da quel momento, la strada verso la riforma della giustizia è stata sempre più tortuosa, lastricata prevalentemente da promesse non mantenute, da interventi-spot o da altri referendum falliti, fino all'ultima riforma Cartabia approvata due anni fa (che prevede un solo passaggio di funzione), per la quale sembra un deja- vu - il problema è nella mancanza dei decreti attuativi.