La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato la sentenza con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva riconosciuto, ai sensi del decreto legislativo 161 del 2010, la condanna pronunciata dalla Corte d’appello di Anversa nei confronti di un imputato, accusato di associazione per delinquere e traffico internazionale di stupefacenti.

Il riconoscimento della sentenza straniera – disposto dai giudici reggini il 15 luglio 2025 – era stato impugnato dalla difesa, che aveva lamentato due profili di illegittimità: la mancata traduzione in italiano della decisione belga e l’assenza di prove che l’imputato fosse stato effettivamente informato del processo svoltosi all’estero.

Secondo il ricorso, nel fascicolo erano presenti «solo atti in lingua straniera», compresa la copia della sentenza d’appello di Anversa. La Corte territoriale, tuttavia, aveva ritenuto che la traduzione fosse una mera facoltà, non un obbligo, limitandosi a esaminare il certificato trasmesso dall’autorità belga. Inoltre, l’imputato calabrese sosteneva di non essere mai stato citato in giudizio, nonostante avesse dichiarato domicilio a San Luca. A rappresentarlo in Belgio era stato l’avvocato Carlo Tiribelli, che – come lo stesso professionista aveva riferito – aveva agito «in assenza di formale mandato».

Il procuratore generale presso la Cassazione aveva chiesto l’annullamento con rinvio, condividendo in parte le doglianze difensive. La Suprema Corte, con sentenza depositata lo scorso 10 ottobre, ha effettivamente riconosciuto la fondatezza del secondo motivo di ricorso, censurando l’operato dei giudici d’appello calabresi. Nelle motivazioni, estese dal consigliere Massimo Ricciarelli ( presidente Gaetano De Amicis), la Cassazione ha chiarito che il tema centrale è quello della conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato, condizione imprescindibile per il riconoscimento delle sentenze penali straniere. «Appare evidente il vizio che inficia la sentenza impugnata», scrivono i giudici di legittimità, rilevando una «ragione di insanabile incertezza in ordine alle modalità di conoscenza del processo da parte dell’imputato». Il Collegio osserva come

il certificato trasmesso dall’autorità belga, redatto in lingua originale, contenesse indicazioni contraddittorie: da un lato, l’affermazione che l’imputato aveva avuto conoscenza del processo e fosse stato assistito da un difensore; dall’altro, l’assenza di qualsiasi prova che tale difesa fosse stata effettivamente da lui autorizzata. «La sentenza – si legge nel provvedimento – si fonda su un presupposto non corrispondente al vero e non dà risposta alle deduzioni difensive volte a prospettare l’inidoneità, a fini della conoscenza del processo, della mera circostanza che l’imputato fosse stato difeso dall’avvocato Tiribelli».

La Cassazione ha quindi ravvisato una violazione di legge in relazione al citato dlgs. 161/ 2010, che recepisce la decisione quadro 2008/ 909/ GAI sul riconoscimento delle condanne penali emesse da altri Stati membri. Tale disciplina, sottolinea la Corte, impone di verificare con precisione se l’imputato sia stato regolarmente informato e se la sua difesa sia avvenuta nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalle direttive europee e dalla Convenzione EDU.

Sulla questione della traduzione, invece, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso: «È obbligatoria la traduzione del solo certificato e non anche della sentenza straniera», ha spiegato la sesta sezione, richiamando l’articolo 12 del dlgs. 161/ 2010. Tuttavia, ha aggiunto, nel caso in cui il certificato risulti «incompleto o manifestamente difforme», la Corte d’appello può e deve richiedere la trasmissione della sentenza tradotta o di un nuovo certificato.