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CARCERE SAN VITTORE 6° RAGGIO VI° RAGGIO
Era il 22 luglio 2015, poco prima delle quattro del mattino, quando la vita di Mario Vardè cambiò radicalmente. Un bussare violento — più simile a un colpo militare — annunciò l’irruzione di Carabinieri, Guardia di Finanza e Gico di Roma. In mano, un mandato di cattura per associazione mafiosa aggravata dal cosiddetto “metodo mafioso”, articolo 416 bis.
Per l’immaginario collettivo, un’accusa simile segna un confine netto tra innocenza e colpa già all’alba dell’arresto.
Una vita normale cancellata
Fino a quel momento Vardè, imprenditore nel settore delle scommesse online con regolare licenza maltese, viveva a Legnano. Lavorava come consulente commerciale per una società del settore, con contratti in regola e autorizzazioni della Questura. La moglie, laureata in Scienze dell’Amministrazione Pubblica, curava la parte amministrativa. Due figli piccoli, una vita ordinaria. Tutto cancellato in poche ore.
Il “teorema” investigativo
L’inchiesta, denominata “Gambling”, fu condotta dalla Dda di Reggio Calabria. Nel luglio 2015 portò all’arresto di 51 persone, al sequestro di 1.500 punti scommesse e di beni per un valore dichiarato di due miliardi di euro, tra Italia e diversi Paesi esteri.
Secondo l’accusa, Mario Vardè sarebbe stato la “testa di legno” di una società dietro cui agiva la ‘ndrangheta. La ricostruzione - contesta la difesa - si basava su un filo di congetture: un marchio già comparso in un’inchiesta napoletana su infiltrazioni camorristiche nel settore delle slot machine, presente anche in Calabria. Da qui, il salto logico: se in Campania era stato diffuso con metodo mafioso, anche in Calabria doveva esserlo.
Non venne mai individuata una cosca specifica. L’accusa parlò di un’appartenenza generica alla “ndrangheta unitaria”, un concetto più teorico che basato su vere e proprie prove concrete.
L’avvocato Tommaso Zavaglia, subentrato nel 2019 come difensore di Vardè , definisce il procedimento “un calvario processuale”: dieci anni di dibattimento, quattro procedimenti accorpati in uno solo. Per la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare nei reati di mafia, Vardè rimase in carcere fino alla scadenza dei termini, nel 2019. «La sentenza assolutoria - osserva Zavaglia - arriva quando la vita dell’assistito è già stata irrimediabilmente compromessa. È giustizia questa? O una macchina che, quando si ferma, lascia dietro di sé solo macerie personali, familiari ed economiche?».
La sentenza: assoluzione piena, ma troppo tardi
Il Tribunale di Reggio Calabria ha prosciolto Mario Vardè con formula piena “perché il fatto non sussiste”, escludendo in radice l’aggravante mafiosa e la stessa sussistenza dei reati contestati. Una vittoria processuale, ma solo sulla carta.
Sul piano reale, Vardè esce distrutto: attività imprenditoriale azzerata, conti correnti chiusi, impossibilità di ottenere nuove autorizzazioni per via dei pregiudizi di polizia, reputazione compromessa.
La sua testimonianza è cruda: «Mi hanno portato via tutto: lavoro, serenità, dignità. Sono entrato in carcere con un figlio di due anni, sono uscito che a stento mi riconosceva. Ho vissuto l’angoscia di una richiesta di condanna a 25 anni e notti in cui il silenzio della cella era assordante. Ho visto i miei genitori invecchiare dietro un vetro e i miei figli crescere senza di me. Ho scelto il dibattimento per dimostrare la mia innocenza, mentre altri coimputati, pur dichiarandosi estranei ai fatti, hanno optato per il rito abbreviato e sono stati condannati. Questa non è giustizia: è una condanna senza reato».
Il caso Vardè riapre il dibattito sull’uso estensivo della custodia cautelare nei procedimenti per criminalità organizzata, spesso basata su presunzioni legislative o teoremi investigativi che il dibattimento smentisce dopo anni. Anni che, per chi li vive dietro le sbarre, non tornano più.
Per l’avvocato Milicia, che collaborato alla difesa, serve una riflessione urgente: «Quando un’assoluzione riconosce che l’accusa era infondata, il sollievo non cancella il danno. Nessun giudice ha riconosciuto l’abuso della custodia cautelare, durata fino al limite massimo. Ora Vardè deve ricostruire la sua vita dalle macerie, con la dignità di chi ha affrontato il processo a testa alta».