Era nell’aria, l’impasse sulla separazione delle carriere. Bastava contare gli emendamenti alla riforma presentati in Senato: più di mille. Sembrava folclore ostruzionistico, eppure la faccenda comincia a farsi seria. Non tanto perché il muro del centrosinistra (il Pd ha depositato 484 proposte di modifica, il Movimento 5 Stelle 165, Avs addirittura 707) possa bloccare del tutto la riforma costituzionale della giustizia, ma perché in questo caso i tempi di approvazione sono, sul piano politico, dirimenti. Visto che il “divorzio” fra giudici e pm non potrà contare, nella seconda e ancora lontana votazione, sul voto a maggioranza dei due terzi, sarà inevitabile il referendum. Che secondo il guardasigilli Carlo Nordio dovrebbe tenersi entro l’inizio del 2026. E così vorrebbe anche Giorgia Meloni, perché l’esito della consultazione non è scontato, e bisogna perciò lasciare un intervallo il più ampio possibile fra il voto popolare sulle “carriere” e le future elezioni politiche, in modo che ci sia il tempo, per il governo, di assorbire un’eventuale clamorosa sconfitta sulla riforma costituzionale, e arrivare non troppo ammaccati al rinnovo del Parlamento. Storia ormai arcinota. Ma se l’ostruzionismo del centrosinistra (che non coinvolge Azione e Italia viva, favorevoli alla modifica della Carta) lasciasse il testo del guardasigilli incagliato ancora a lungo nella commissione Affari costituzionali del Senato, salterebbero inesorabilmente tutte le tabelle di marcia.

Così ieri, nella conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama, il presidente dei senatori forzisti Maurizio Gasparri si è fatto sentire: «Dedichiamo alle carriere separate un ciclo di sedute monotematiche in commissione, anche 30- 40 ore di riunioni, oppure la prossima volta fissiamo, a maggioranza, una data per l’Aula, a costo di arrivarci senza aver esaminato gli emendamenti e, quindi, senza aver conferito il mandato al relatore». Posizione condivisa, va detto, dal presidente dei senatori di Fratelli d’Italia Lucio Malan. È un’ipotesi estrema, ma teoricamente risolutiva: una volta che il ddl Nordio approdasse nell’emiciclo, il regolamento non consentirebbe un iter illimitato, prima o poi il voto finale arriverebbe. Gasparri e Malan lo sanno.

FRANCESCO BOCCIA - SENATORE
FRANCESCO BOCCIA - SENATORE
FRANCESCO BOCCIA - SENATORE (IMAGOECONOMICA)

Ma lo sa pure il loro omologo del Pd, Francesco Boccia. Il quale ha formulato il seguente avvertimento: «Siamo su posizioni assolutamente opposte: non esiste per nulla al mondo che una forza politica», cioè Forza Italia, «pretenda di cambiare la Costituzione, attraverso una imposizione del governo e senza aver fatto alcuna modifica nei due rami del Parlamento (il testo delle carriere separate scritto da Nordio è stato già approvato alla Camera nella stessa identica forma varata un anno fa in Consiglio dei ministri, ndr) e con l’aggravante di minacciare di andare in Aula senza mandato al relatore. Questa cosa», tuona il capogruppo dem, «non è mai avvenuta nella storia della Repubblica e non avverrà certo qui, quindi siamo pronti a qualsiasi tipo di reazione dentro il perimetro della Costituzione, che probabilmente loro non conoscono». 

Pronti a qualsiasi cosa. Ecco, si materializza un fantasma che aleggiava da un po’: il rischio che se il centrodestra avesse provato a forzare il muro ostruzionistico dell’opposizione, la controparte avrebbe urlato al “golpe costituzionale”. Non sarebbe la fine del mondo, se non fosse che a Palazzo Chigi, e alla maggioranza in generale, non conviene affatto presentarsi al referendum sulla separazione delle carriere con l’accusa di aver “violentato” la Carta. Un’altra capogruppo, la renziana Lella Paita, infierisce: «C’è maretta in maggioranza: il fatto che non ci sia mai la riforma della giustizia in agenda comincia provocare qualche mal di pancia. L’abbiamo avvertito con la minaccia esplicita di voto sul calendario da parte di Forza Italia». Gasparri, a cui Paita allude, si è limitato in realtà a fornire qualche dato: «La riforma, qui al Senato, è stata già discussa in commissione Affari costituzionali con 19 sedute, 175 interventi dell’opposizione per illustrare gli emendamenti, 30 audizioni, 7 ordini del giorno e», appunto, qualcosa come «1.363 proposte di modifica».

Lo stallo c’è. E su come superarlo dovrà esprimersi, probabilmente, anche il vertice dell’Esecutivo, Meloni in persona. La posta in gioco è troppo delicata. I l complicarsi del principale, se non esclusivo dossier della maggioranza in materia di giustizia rende impraticabili quasi tutte le altre sfide. Alla Camera, nelle ultime ore, sempre Forza Italia ha provato, con Tommaso Calderone ed Enrico Costa, a inserire la riforma della custodia cautelare nel ddl di conversione del decreto Sicurezza. Ma è improbabile che i loro emendamenti vengano approvati. Ieri il centrodestra ha ufficializzato, nell’Aula di Montecitorio, il dietrofront sulla legge Tortora, che avrebbe dovuto individuare nel 17 giugno, giorno in cui (nel 1983) fu arrestato Enzo, la giornata per le vittime degli errori giudiziari. Sacrificio che la premier ha indicato come inevitabile per non complicare il percorso delle carriere separate. Calderone e Costa hanno votato contro il ritorno del testo in commissione Giustizia, che il presidente dell’organismo Ciro Maschio (FdI) ha invece annunciato in Aula come inevitabile ( «non si è chiuso il cerchio»). Almeno una parte degli azzurri prova dunque con tenacia a difendere anche le trincee più scomode. D’altronde le rinunce sembrano tanto irreversibili quanto insufficienti a garantire un percorso spedito alla separazione delle carriere. Che mai come adesso rischia di diventare davvero un grattacapo per Meloni e la sua maggioranza.