L’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione della prima ondata del Covid nella zona più colpita d’Italia ha suscitato inevitabilmente la reazione del mondo scientifico. Sembra di rivivere il periodo dell’inchiesta e del processo sul terremoto dell’Aquila. Situazione diverse ma con un denominatore comune: la scienza che limiti ha dinanzi a fenomeni catastrofici, imprevedibili e sconosciuti? Per questo deve essere punita?

Al di là delle eventuali responsabilità politiche sul mancato aggiornamento del piano pandemico, oggi analizziamo la reazione all’inchiesta di Antonio Chiappiani da parte di scienziati di varie branche, che abbiamo spesso ascoltato durante i momenti più bui della pandemia. Un giudizio molto critico sulla iniziativa dei magistrati di Bergamo lo ha espresso il noto epidemiologo Pier Luigi Lopalco: «Che l’Italia fosse un luogo dove la scienza ha scarsa cittadinanza, purtroppo, lo sapevamo. Ma quello che sta succedendo in coda all’emergenza pandemica ha dell’incredibile. Di quelle cose che te le raccontano al bar e tu dici “no, dai, stai scherzando?!”», scrive su Facebook.

«L’Italia viene investita, prima nel mondo occidentale, da una pandemia la cui portata non era stata prevista neanche nei peggiori scenari di previsione. Il sistema sanitario, nonostante tutte le sue ataviche debolezze, comunque regge lo schianto. Anzi, con scelte anche poco popolari e decisamente drastiche, mostra agli altri Paesi occidentali come meglio rallentare la corsa del virus. Poi arrivano i vaccini, e l’Italia si dimostra la migliore per velocità di implementazione e raggiungimento di coperture. Finalmente passa l’emergenza e cosa succede?», si chiede Lopalco. Che si risponde «1) una procura indaga tutti coloro che hanno perso le notti per salvare il Paese, dal più grande al più piccino, per reati tremendi come epidemia colposa. 2) il Parlamento avvia una commissione d’inchiesta (politica) per fare luce non si sa su quali misfatti. Una cosa andava fatta, come si fa nei Paesi civili: una commissione tecnico-scientifica di valutazione di quella che è stata la risposta del sistema, dello Stato, alla più grande pandemia della storia contemporanea. Un’analisi su cui costruire i piani pandemici di domani. Ma questa è roba per scienziati. Che vadano a farla da qualche altra parte». Dubbi li ha espressi anche l’infettivologo Matteo Bassetti: «C’è troppa acredine nel processo di Bergamo. Non si può guardare a quelle due settimane di febbraio e marzo 2020 con gli occhi e le conoscenze di oggi. Sulla gestione in quei terribili 15 giorni o siamo tutti innocenti o siamo tutti presunti colpevoli. Diciamo no al giustizialismo italico. Indaghiamo, attraverso una commissione parlamentare, sui tre anni della gestione della pandemia per onorare chi ci ha lasciato e per imparare per il futuro».

Di diverso parere l’immunologa Antonella Viola: «La decisione della Procura di Bergamo è quasi un atto dovuto, di fronte a tutte le migliaia di persone che sono decedute in quei tragici mesi» tuttavia «mentre la magistratura lavora, noi dobbiamo tacere. Non cadremo nella tentazione di fare processi sommari, perché davvero non c’è stato nulla di semplice e scontato nella gestione dell’emergenza Covid19». Per il virologo Fabrizio Pregliasco «si è fatto il possibile considerato il momento, c’era anche l’ignoranza su di una malattia con delle caratteristiche spiazzanti. Ora però non bisogna arrivare a fare una caccia alle streghe».

Ma c’è un altro elemento che sta destando polemiche nel metodo e nel merito, ossia le varie interviste del Procuratore capo di Bergamo. Enrico Costa di Azione ha annunciato una interrogazione a Nordio: «I magistrati facciano seriamente le indagini e parlino attraverso gli atti giudiziari (evitando che vengano pubblicati alla lettera prima che i destinatari li abbiano letti) e si astengano dal marketing giudiziario». Ma c’è una frase pronunciata da Antonio Chiappani a Repubblica che lascia perplessi: «Nostro dovere soddisfare la sete di verità della popolazione». Per il professore e avvocato Gaetano Pecorella, già presidente dell’Unione Camere Penali: «Esiste una verità storica che verrà dalle ricerche che ci saranno nel futuro. E poi esiste la verità giudiziaria che si forma rispettando gli articoli del codice di procedura penale. Confondere il processo penale con il populismo significa snaturare completamente il processo penale. Quest’ultimo si deve celebrare a certe condizioni. La prima: che ci siano indizi gravi e concordanti. La seconda: soprattutto dopo la riforma Cartabia, che ci sia una prospettiva di condanna in base agli elementi raccolti in fase di indagine».

In generale, riflette Pecorella, «oggi si tende a trasformare il processo in comunicazione politica: per chi non ha adeguata preparazione per comprendere queste dinamiche, i pubblici ministeri diventano dei paladini della verità. Non si può utilizzare la giustizia per fare i libri di storia. La verità per il popolo l’ultima volta che l’abbiamo vista nella storia è quando tagliavano le teste durante la Rivoluzione francese. La verità per il popolo rappresenta un linciaggio morale e politico. Che un pm metta in mano al popolo una pietra da scagliare contro qualcuno significa confondere la giustizia con il linciaggio».