«È il processo dell’inversione». L’avvocata Rossella Ognibene, difensore insieme a Oliviero Mazza dell’ex responsabile dei Servizi sociali della Val d’Enza Federica Anghinolfi, ha sintetizzato così, questa mattina, sei anni di processo sui presunti affidi illeciti. Sul banco degli imputati non solo le 14 persone sotto accusa, ma una generazione di servizi sociali accusata di aver trasformato la tutela in persecuzione.

«Questo processo è storia - ha sottolineato Ognibene rivolgendosi alle giudici - e quello che deciderete è atteso dalla comunità scientifica. Non accetto una inversione così marcata e così evidente non solo nelle cronologie, ma anche nel rapporto tra le imputazioni e le frasi contenute nelle relazioni». Un processo in cui «gli angeli sono diventati demoni», ha detto Ognibene, una metamorfosi simbolica evocata dal nome dell’indagine e che ha fatto da cornice mediatica sin dal primo giorno, quando le telecamere di Rai 3 erano appostate all’alba davanti al Comune di Bibbiano mentre il sindaco Andrea Carletti veniva condotto al suo interno per le perquisizioni. «Chi li aveva avvertiti?», si è chiesta Ognibene. Non per insinuare, ma per denunciare una gogna mediatica andata avanti per mesi.

«Colpevoli di cura»

«In questo processo - ha spiegato Ognibene - viene contestato l’opposto di quanto effettivamente accaduto. Per le affidatarie Fadia Bassmaji e Daniela Bedogni (l’unica coppia affidataria a processo, ndr), la consulente Samantha Miazzi ha intitolato la sua relazione “colpevoli di cura”. Un concetto che vale anche per gli imputati del Servizio sociale: colpevoli di aver agito in protezione». Una protezione che stava dando i suoi frutti, dati alla mano. Perché sono proprio i dati e i numeri a smentire la narrazione mediatica che ha caratterizzato questo caso: la pm ha parlato di «un fiume in piena» di segnalazioni di abusi e allontanamenti. Un aumento spropositato dato per accertato per mesi dalle prime pagine dei giornali. Ma questo fiume in piena, in realtà, non esisteva. Mentre nel 2017 i provvedimenti di allontanamento erano 18, nel 2018 sono scesi a cinque e di questi solo uno è finito a processo. «E gli altri quattro? - si è chiesta Ognibene - Non siamo quelli che inventano gli abusi? Perché non sono qui a giudizio?». La flessione dei casi era collegata ad un’attività di prevenzione nelle scuole che aveva anticipato l’esigenza di un intervento del Servizio sociale. «Il fiume in piena di cui parlano la pm e le parti civili, che non si sono confrontati con questi numeri - ha dunque sottolineato Ognibene -, è smentito dai dati». Anche le ipotesi di abuso in famiglia erano poche rispetto ai casi totali: 18 su 134. Un altro tema era quello secondo cui si creavano falsi abusi per poter pagare gli psicoterapeuti Claudio Foti (assolto in via definitiva) e Nadia Bolognini. Ma i pazienti a loro inviati erano in calo, come provano anche le fatture depositate dalla pm. «Non si costruivano casi falsi per passare soldi a nessuno», ha aggiunto la legale.

Il lavoro dei Servizi e le sue conseguenze

Quel fiume in piena, ha detto Ognibene, non era dunque altro che «il lavoro di un Servizio che con un’attività di prevenzione aveva fatto il possibile per intercettare i fenomeni di maltrattamento e abuso e per porre rimedio al bambino ferito». E l’interruzione di questo percorso ha avuto effetti nefasti: risale al 5 maggio 2025 il report con il quale Telefono Azzurro ha denunciato un aumento dei casi di abusi, cresciuti del 17 per cento (in Emilia-Romagna del 9,49%, terza dopo Lombardia e Lazio). Ciò, secondo Ognibene, dà la dimensione «di come sia stato annientato il sistema di prevenzione e cura che questi imputati avevano posti in essere. Mi avrebbe fatto molto piacere se le parti civili, Regione e Asl, avessero offerto una loro interpretazione di questi dati - ha sottolineato -, ma si sono limitati a dire che gli imputati hanno imbrogliato le istituzioni. In realtà hanno fatto il contrario, ottenendo ottimi risultati». Oggi andati persi. «Personalmente - ha affermato Ognibene - questo mi fa stare molto male, oltre che suscitarmi tante perplessità sul perché noi siamo qua dopo sei anni».

La situazione nella Val d’Enza

Che nella Val d’Enza ci fosse un problema di abusi era emerso durante l’audizione del 12 marzo 2015 nella Commissione Parità e Diritti della Regione, dove a certificare la situazione erano stati Luigi Fadiga, Garante per l'infanzia e l'adolescenza dell'Emilia-Romagna, e Massimo Masi, responsabile del gruppo di lavoro regionale per le linee guida contro i maltrattamenti sui minori. Tuttavia, era stato sottolineato anche il dato positivo: nel Reggiano era stato trovato il coraggio di denunciare, grazie anche alla tempestività dei servizi sociali nel coinvolgere l’autorità giudiziaria. Come emerso durante il processo - ad esempio dalla testimonianza della pediatra Elena Ferrari -, però, in quel periodo non c’erano psicoterapeuti Asl per il trattamento specialistico della cura del trauma per minori vittime di maltrattamenti e abuso e ciò in tutta la provincia di Reggio Emilia. Proprio per questo fu necessario rivolgersi ad esperti esterni, tanto che gli operatori insistettero molto per avere questo tipo di trattamento. Grazie al lavoro dei Servizi, stando a queste testimonianze, finalmente si stava facendo emergere un fenomeno sommerso, che «non equivaleva a creare falsi casi di minori vittime», ma avere una maggiore capacità di intervento «che ci allontanava dal terzo mondo». Ad un costo - 135 euro a seduta - che per le tabelle ministeriali era perfettamente nella norma.

La prova regina ribaltata

La pm Salvi, il 17 marzo, ha affermato in requisitoria che Anghinolfi dava direttive per i contenuti da aggiungere e le modifiche da fare nelle relazioni. Una tesi che ha tentato di dimostrare con un particolare un documento trovato nel pc dell’ex responsabile del Servizio, una relazione in word con modifiche segnate in giallo, ritenute dalla pm altamente svalutanti nei confronti delle figure genitoriali e, dunque, finalizzate a mantenere l’affido. Quella parte in giallo è, per la pm, la prova che Anghinolfi mettesse le mani nelle relazioni, ritenuta la base per chiedere 15 anni di carcere. «È bastata mezz’ora nel device di Anghinolfi per scoprire che quella proposta era stata formulata da Marietta Veltri, non da Anghinolfi - ha evidenziato Ognibene -. Quei file erano presenti solo come allegati a lei inoltrati via mail da Veltri, che scriveva le sue osservazioni. Questo non per dare colpe a Veltri, che non ne ha, ma per dire che sarebbe bastato ripercorrere quelle trasmissioni email per rendersi conto come la tesi della pubblica accusa sia non vera». Tant’è che nella mail Veltri dice chiaramente di aver «evidenziato in giallo la parte che andrebbe spiegata meglio», suggerimento che dava in virtù di coordinatrice del servizio perché le relazioni fossero adeguate alle richieste dell’autorità giudiziaria. Quella relazione, infatti, era stata richiesta dal Tribunale ordinario in fase di separazione dei coniugi, «quindi era necessario essere precisi». Insomma, l’accusa avrebbe effettuato una «selezione degli elementi», come evidenziato in più momenti e con più esempi Ognibene. E nel corso del processo, d’altronde, non sono emerse prove di interventi di Anghinolfi sulle relazioni.

L’epiteto, la tecnica e il contesto clinico

Ognibene ha anche contestato l’epiteto usato dalla pm per definire Anghinolfi, che suggeriva, per una minore con trauma, di «spostare l’attenzione per spostare l’emozione». La pm, ha detto Ognibene, «ha pensato bene di usare l’espressione “quel genio della Anghinolfi”. Bene - ha sottolineato -, “quel genio della Anghinolfi” è in buona compagnia, con uno dei massimi esperti di psicologia del ‘900, Roberto Assagioli, psichiatra, con una specializzazione a Zurigo, con supervisione di Jung e corrispondenza epistolare con Freud. La tecnica della sostituzione è molto banale: quando c’è una situazione di sofferenza, si suggerisce al paziente di pensare ad altro». Ma non solo. La pm accusa Anghinolfi anche di aver voluto recidere i legami familiari, al punto, ad esempio, che N. G. non riusciva a descrivere la madre, aveva spiegato Salvi. «Il bambino aveva però visto la madre 24 ore prima» di quell’episodio, senza dimenticare che N. «aveva una compromissione nell’area del linguaggio. Il fatto che non riuscisse a descrivere la madre era dunque collegato a questo» dato clinicamente certificato e presente «prima dell’intervento del Servizio». E dopo questo intervento, invece, le capacità comunicative del bambino sono migliorate, «cosa che ci dice la cartella clinica prodotta dalla difesa».

Il ruolo dell’assistente sociale

Ognibene ha sottolineato che l’assistente sociale è un professionista qualificato, dotato di autonomia tecnica e metodologica, il cui compito non si limita alla semplice compilazione di documenti, ma consiste nell’analizzare informazioni provenienti da diverse fonti. Ha spiegato che «il Servizio ha un mandato a cui risponde con una propria autonomia tecnica e metodologica» e che spetta proprio a questo servizio «individuare, a seconda dei casi, quali aspetti siano più importanti per valutare la situazione, come fare a raccogliere le informazioni necessarie e come fare per scrivere la relazione». In Val d’Enza, «le valutazioni erano svolte in una attività di equipe, di confronto delle varie professionalità che si incrociavano nel caso specifico, perché si desse una lettura tecnico-professionale».