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«Nel caso di una assoluzione in un processo penale, la confisca dei beni viola la presunzione di innocenza?»: è questa la domanda cardine che la Cedu ha posto al nostro governo in seguito ad un ricorso, ritenuto ricevibile, proposto da Gaetano, Vincenzo e Salvatore Vito Cavallotti.
I tre furono assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nel 2010 dalla Corte di Appello di Palermo ma, nonostante questo, nell'ambito del procedimento per l'applicazione delle misure cautelari, la Corte di Cassazione ha dichiarato definitiva, il 2 febbraio 2016, la confisca dei loro beni, tra cui diverse società, di loro proprietà o di loro familiari (Salvatore Cavallotti, Giovanni Cavallotti, Margherita Martini e Salvatore Mazzola, secondo gruppo di ricorrenti). Per questo, nel 2016, proposero distinti ricorsi (curati da Baldassare Lauria e Alberto Stagno d’Alcontres) in Europa e adesso è arrivata una prima risposta interlocutoria.
Una risposta che cerca di dirimere quel paradosso che l’avvocato Giuseppe Belcastro, vice presidente della Camera penale di Roma, evidenziò durante un recente convegno sull’antimafia: «Come possiamo spiegare al cittadino lo iato tra le misure di prevenzione e il buon senso: in un’aula vieni assolto e nell’aula accanto ti confiscano i beni?».
Ora anche la Cedu vuole vederci chiaro e oltre a quella domanda pone altre questioni all’Italia: se la confisca, sempre nel caso di assoluzione, sia proporzionale e necessaria; se essa non sia una vera e propria sanzione penale, in caso affermativo ci sarebbe una violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea (nulla poena sine lege); se, alla luce dell'assoluzione dei ricorrenti, l'accertamento della particolare pericolosità e la conseguente confisca dei beni fossero giustificati; se le autorità nazionali abbiano dimostrato in modo motivato che i beni formalmente posseduti dal secondo gruppo di ricorrenti appartenevano in realtà al primo gruppo, e se lo abbiano fatto sulla base di una valutazione obiettiva degli elementi di fatto o su un mero sospetto; se l'inversione dell'onere della prova (a differenza del processo penale, nei procedimenti delle misure di prevenzione spetta al cittadino provare l’innocenza, ossia dimostrare la legittima provenienza dei beni) sull'origine lecita dei beni acquisiti molti anni prima non abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti; se ai ricorrenti sia stata concessa una ragionevole opportunità di presentare le loro argomentazioni ai giudici nazionali e se questi ultimi abbiano debitamente esaminato le prove presentate dai ricorrenti.
Il governo italiano deve fornire risposte e osservazioni entro il 13 novembre di quest’anno. Come dice al Dubbio Pietro Cavallotti, che da anni si batte contro l’attuale normativa delle misure di prevenzione, «questa iniziativa della Cedu può essere la premessa per una sentenza pilota che potrebbe ridisegnare la fisionomia della confisca di prevenzione». Eppure proprio ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, a Palermo per la firma di un protocollo d'intesa in prefettura per l'assegnazione di alcuni beni confiscati alla mafia, ha detto: «La normativa italiana sui beni sequestrati e confiscati è un unicum nel panorama mondiale, è bene dirlo. Siamo richiesti da Paesi stranieri, anche europei per vedere come funziona il nostro sistema. È bene celebrarlo nella maniera dovuta». Sarà davvero così?