È il 27 giugno del 2019. La Val d’Enza finisce al centro di un incubo, in una storia così brutta che non sembra vera. Non può essere vera. Perché dentro ci sono tutti gli ingredienti giusti per dar vita ad un film horror: disegni di bambini falsificati, padri e madri amorevoli dipinti come mostri, scene di violenza simulata con travestimenti, regali e lettere d’affetto tenuti nascosti. Una vera e propria manipolazione su bambini dai 6 agli 11 anni, con un unico tremendo obiettivo: togliere decine di ragazzi ai propri genitori per passarli come pacchi a famiglie affidatarie, possibilmente omosessuali, per guadagnare soldi in cure private a pagamento e corsi di formazione.

Un quadro raccapricciante, in cui gli angeli si trasformano in demoni, proprio come recita il nome dell’inchiesta. In quell’etichetta - “Angeli e Demoni” - c’è già scritta la sentenza: da una parte ci sono i buoni, i genitori, dall’altro i cattivi, assistenti sociali e psicoterapeuti. La procura di Reggio Emilia ne è convinta: i bambini avrebbero subito un vero e proprio lavaggio del cervello, fatto di ore e ore di psicoterapia e suggestioni indotte attraverso impulsi elettrici, tramite quella che veniva presentata ai bambini come “macchinetta dei ricordi”, un sistema che avrebbe «alterato lo stato della memoria in prossimità dei colloqui giudiziari».

I titoli in prima pagina, il giorno dopo, sono raccapriccianti. E ovunque si parla di elettroshock, anche se l’elettroshock, in questa storia, ovviamente non c’è mai stato. Chi abbia diffuso una notizia che la stessa procura si è trovata costretta a smentire non è dato saperlo. Ma fa il giro del mondo e rimane intatta, anche dopo che in un’aula di Tribunale si è scoperto che quella macchinetta non poteva fare alcun male e che l’unico suo “difetto” era l’assenza del marchio Ce (la cui certificazione, però, si trova sul sito della casa produttrice). Ma quella parola, elettroshock, terrificante e insieme palesemente falsa è la prima crepa in una vicenda che, piano piano, diventa sempre più nebulosa.

La politica, intanto, ha già fiutato l’affare: il coinvolgimento di un sindaco dem, il primo cittadino di Bibbiano Andrea Carletti, fornisce alla destra e al M5S la scusa per etichettare il Pd come il partito di Bibbiano, il partito dei ladri di bambini e dell’elettroshock. I leader politici piombano sulla cittadina emiliana provando a cannibalizzarla in occasione del voto. Matteo Salvini sale sui palchi di tutta Italia con in braccio bambini che definisce vittime di Bibbiano, ma che con Bibbiano non hanno nulla a che fare. Nel frattempo, la gogna per psicoterapeuti e servizi sociali è totale. Gli assistenti sociali vengono inseguiti, minacciati, picchiati. Le denunce per maltrattamento e abuso crollano, nessuno chiede più aiuto. Nessuno se la sente di darne. In tv spuntano sedicenti genitori privati dei figli, che raccontano storie che nessuno verifica. Vengono mandate in onda le intercettazioni, a indagine ancora in corso, atti segreti che vengono tagliuzzati e montati ad arte, per rendere l’inferno ancora più brutto.

Nelle case degli italiani si insinua la paura che qualcuno, un giorno, possa strappare loro i bambini dalle braccia senza alcun motivo. E gli indagati, le cui foto finiscono su tutti i giornali accuratamente selezionate tra quelle più aderenti all’immagine del mostro, diventano reietti al punto tale che nemmeno le misure cautelari servono più. Il gip arriva addirittura a scriverlo: «Proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando».

Una conferma, dunque, dei devastanti contorni mediatici assunti dalla vicenda. «I contatti (eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il mondo politico e ideologico di riferimento - scrive il gip -, proprio in ragione dell’ampio risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe (se scoperto) costituirà un adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare». Insomma, inutile preoccuparsi: accostarsi agli indagati equivale ad una condanna a morte sociale. L’indignazione collettiva, stimolata da decine e decine di articoli che raccontano dettagli raccapriccianti ma manipolati, quando non falsi, provoca un’ondata d’odio e fake news.

A partire dall’esistenza di un sistema - nonostante i casi a processo siano solo otto su centinaia di affidi - che ha generato la falsa convinzione dell’esistenza di decine e decine di bambini strappati ingiustamente alle famiglie. Ma nessuno ha approfondito quelle storie, a volte raccapriccianti, nessuno è andato a fondo di quei presunti abusi. Forse anche veri, sostiene l’accusa, ma non è quello ciò che conta. Ciò che conta sono le relazioni «gonfiate» (secondo la procura) che avrebbero facilitato quegli affidi.

Il simbolo della vicenda è un disegno, che secondo l’accusa sarebbe stato falsificato: per la pm, una psicologa avrebbe aggiunto due braccia al corpo di un uomo, ritratto in piedi vicino ad una bambina. Braccia che si allungano sulle zone intime, raccontando una storia che in realtà, sostiene l’accusa, non esisterebbe. Ma spulciando le carte, non è difficile scoprire che il disegno, in realtà, è diverso da come è stato presentato dalla (e alla) stampa: le due figure non sono in piedi, ma stese su un letto (di cui non c’è traccia nella versione finita sui giornali). Le due figure sono quelle di una bambina e, sopra di lei, un adulto. Uno scenario che anche senza braccia risulta potenzialmente raccapricciante.

Dopo il rinvio a giudizio di 17 persone, a novembre 2021, e la condanna in abbreviato di Claudio Foti, lo psicoterapeuta ritenuto simbolo della storia (pur non avendo a che fare con gli affidi), le tesi della procura diventano verità assoluta. E Foti viene trattato come un pericoloso criminale, finendo per essere cacciato da un ristorante ed etichettato come “il lupo di Bibbiano”. Con la storia del lupo - che poi è solo un pupazzo usato da una psicoterapeuta durante la terapia - lui non c’entra nulla. Ma ci vorrà del tempo per cominciare a far venire fuori i pezzi della storia. Come il fatto che non c’è stato alcun elettroshock o che i casi contestati sono pochissimi, mentre le situazioni di disagio tutte certificate. A giugno 2023, Foti viene assolto.

Secondo l’accusa avrebbe provocato un disturbo borderline e depressione nell’unica paziente coinvolta nel caso, ma in appello viene dimostrato che ciò non sarebbe possibile in nessun caso. E lui, che ha consegnato i video delle sedute per dimostrare la sua buona fede, non avrebbe manipolato i ricordi, né convinto la ragazza che sia stato il padre a farle del male. L’odio è però ancora vivo nei suoi confronti e chi ha partecipato alla campagna di delegittimazione continua ad invocare la gogna. Partendo da un presupposto falso: il suo coinvolgimento nell’inchiesta dei Diavoli della Bassa, chiusa con la condanna degli imputati accusati di pedofilia, ma la cui narrazione ufficiale è stata stravolta da “Veleno”. Cosa c’entra Foti con “Veleno”? Nulla, se non per il fatto di averlo criticato. Ma ammetterlo significherebbe negare l’esistenza di un metodo, la bugia sulla quale tutta questa storia si basa.

Mentre la vicenda processuale di Foti si è chiusa, quella degli altri 17 imputati va avanti. Il processo in corso a Reggio Emilia è in corso da oltre due anni e davanti ai giudici sfilano ancora i testi dell’accusa. E ogni udienza ridimensiona il quadro accusatorio: sono già nove i testi ritenuti indagabili, mentre l’ipotesi di abuso d’ufficio si sgretola sotto i colpi delle testimonianze.

Dalle quali, finora, sono uscite fuori alcune certezze: se Foti e l’ex moglie Nadia Bolognini sono arrivati in Val d’Enza è perché l’Ausl non aveva terapeuti formati in maniera adeguata per affrontare il trauma da abuso. E i bambini arrivavano a quegli psicoterapeuti solo dopo l’ok dell’Azienda sanitaria. C’è la madre che ha denunciato l’ex marito per abusi prima di incontrare i servizi sociali, salvo cambiare versione durante le indagini. Ci sono le relazioni - preoccupate - della scuola sui bambini coinvolti e tanto altro ancora. C’è perfino un’autointercettazione, in cui i carabinieri parlano di audio da «far uscire». E la domanda strana ai testi: «Legge il Dubbio? Glielo ha mandato qualcuno?». Una questione che fa il paio con l’accusa rivolta ai difensori del processo dal procuratore Gaetano Paci, intervenuto in aula in difesa della pm Valentina Salvi denunciando il «vaso comunicante che è evidente si sia venuto a creare tra il processo e il suo palcoscenico, cioè la stampa». Tutto ciò per aver difeso i diritti degli imputati. Travolti da un’ondata di fake news, fango e minacce di cui si sono già dimenticati tutti.

Il processo è ancora lungo e molto probabilmente perderà per strada l’abuso d’ufficio, reato in corso di abrogazione. Ma quel che è certo, al momento, è che dopo aver usato Bibbiano come una clava, chiunque ne chiedesse conto ha smesso di interessarsene. Parlateci di Bibbiano, urlavano tutti in quei giorni terribili. E tutti lo facevano senza sapere di cosa parlavano, aiutati da centinaia di account falsi, sull’onda di un hashtag che ha inondato la rete di immondizia, che è rimasta a galleggiare, nonostante tutto. Di Bibbiano, però, ad un certo punto, hanno smesso di parlare tutti. Eppure il processo a Reggio Emilia - dove sono imputate 17 persone - continua, riservando sorprese e colpi di scena. Mettendo in evidenza ciò che chiunque conosca il diritto sa da sempre: le ordinanze di custodia cautelare non sono una Bibbia. È il processo a comandare. Basterebbe seguirlo. Solo così si può parlare di Bibbiano.