“I colori del tempo” (La Venue de l’avenir) di Cédric Klapisch è un titolo franco- belga che lascia immediatamente presagire un viaggio nella memoria. Quanto profondo, è la storia stessa a dimostrarlo allorché intreccia diverse esistenze di donne e uomini francesi a quella della comune capostipite Adèle Meunier (Suzanne Lindon), volto dotato delle giuste asimmetrie per far rivivere speranze e travagli di una ragazza della Normandia di fine Ottocento.

Non è frequente trovare scene che al cinema permettano di sentire l’essenza di un quadro, quasi avvertendone rilievi e fasi creative. Non serve a indurre inquietudine come per la Sindrome di Stendhal argentiana: qui le immagini vogliono solo creare un punto di domanda, e spiegare come fosse vivere tra rapporti più schietti perché sostanzialmente privi di finzione in una cornice di generale povertà. E in una casa che nessuno ha più aperto dal 1944, anno simbolico per la rinascita dopo il nazismo, un’inge gnera dei trasporti, un professore di francese, un apicoltore, e un videomaker, discutono sull’opportunità o meno di far spianare mura e ricordi del passato all’avidità degli speculatori rivelando sé stessi ed entrando ognuno in sintonia con le fragilità dell’altro secondo una sensibilità impressionista.

Fermandosi a leggere le storie celate da quelle mura, emergono continui attraversamenti e consonanze tra fine Ottocento e modernità, in un’alternanza virtuosa che sorprendentemente sa farci familiarizzare con le atmosfere di quella Francia di fine secolo portandoci a disconoscere la nostra vorticosa, superficiale contemporaneità. Il labile racconto a cornice e certe incoerenze di scrittura, nate dall’esigenza di restare pur sempre nell’architet tura della commedia, non sporcano la bellezza del film, che nella figura simbolica della ragazza del Nord che cerca la madre e un destino diverso a Parigi, rappresenta ogni possibile sfumatura d’amore per la cultura e le arti di Francia.

In un’epoca nella quale il nostro narcisismo pretende primi piani veloci, rinunciando a contemplare arte e natura, la pellicola di Klapisch che sa fotografare, ci invita a riconsiderare il rapporto col tempo e i luoghi, ricostruendo scene e interni o angoli, carichi della grande Storia francese, o all’opposto, delle tante piccole storie umane, per ricambiare insieme rotta, e sfruttare la maga degli Impressionisti, per riavere una vita vera senza troppe sfumature a oscurare i colori della luce e il nostro modo di percepirli. La magica sensazione dello scrivere su carta per chi non aveva avuto la possibilità di studiare, così come la capacità di fermare su tela le sensazioni offerte dall’esterno, sono parte integrante del film, che si spinge fino a mostrare i prodigi dell’allora giovane arte fotografica e le meraviglie del neonato cinema.

La luce, come la pittura, la memoria e il dialogo tra generazioni, rendono questo film un passaggio importante nel recupero della più genuina identità europea sottolineando la tremenda responsabilità di dover difendere il significato dei ricordi da vecchie e nuove barbarie.

L’incontro allucinato tra i protagonisti e i nomi della cultura della Parigi Fine Secolo è spiazzante ma anche profondamente poetico nel mostrare celebri pittori o intellettuali nella loro inconsapevolezza e fragilità, senza le sovrastrutture che la posterità ha innalzato.

Colpisce vedere incompresi capolavori di Monet derisi da mediocri dimenticati dal tempo, ma tutto diviene comprensibile nel modo contemporaneo di ostacolare l’espressone artistica e tecnologica quando nate fuori dalle strade già battute. Cast, costumi e fotografia rendono “I colori del tempo” un classico del domani, cui riferirsi tutte le volte che si vorranno indagare relazioni tra i personaggi con una drammaturgia sobria ma non di superficie e definire la ricchezza del cinema europeo.