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40 Secondi, che Carmine Alfieri ha diretto e scritto con Giuseppe Stasi, aveva colpito pubblico e critica della Festa del Cinema di Roma. Il regista, non ancora quarantenne, mostra personalità e tecnica, strutturate frequentando i tanti mestieri del cinema. Si sentono, infatti, nell’arco del film, dialoghi credibili, alternati a silenzi e suoni mai casuali.
Le immagini e le intrusioni della macchina da presa, che bracca gli interpreti, rivelano il passato del regista tra pubblicità e videoclip, e una passione radicata per il montaggio. È però la lunga carriera nella recitazione a farne, a nostro avviso, il brillante regista che è.
Il suo è un film cupo, difficile, che recupera e potenzia uno schema narrativo usato in precedenza nella serie Netflix Avetrana - Qui non è Hollywood.
L’assassinio di Willy Monteiro Duarte racconta la morte efferata di un ventenne della provincia laziale pieno di sogni, incappato nella violenza esplosa da coetanei, in una rissa per motivi futili.
I rumori amplificati dal silenzio della notte, le luci irreali, le voci che sembrano provenire dall’Ade, costruiscono un tappeto sonoro teso, che Alfieri usa come un interprete, in consonanze dense di significato, con un crescendo esemplare.
Allora, partendo dal dramma che in attimo si consuma in paese, quel 6 settembre 2020, il regista esplora la ferita aperta dell’uccisione facendo scorrere da angolazioni diverse esistenze represse dalla pandemia e dalla paura del giudizio, o ammalate di apparenza, sballo, possesso, dove crescere tra le percosse di un padre alcolizzato è promessa di un futuro criminale.
Alfieri usa al meglio ogni interprete, esordiente, giovane o maturo, come quando orchestra Francesco Di Leva, Sergio Rubini e Maurizio Lombardi.
Il regista racconta così, tra volti antichi e migranti, le trasformazioni sociali della provincia, e le reazioni ad esse, tra chi vive per sé stesso, a costo di sgretolare le vite degli altri, e quanti inseguono il sogno di un gruppo, di un amore, di un trasferimento. I tre grandi attori incarnano la legge, l’etica, il lavoro, ma quel maledetto 2020, dove con la mascherina sul volto ogni cosa sembra capovolta, racconta di come l’isolamento da Covid abbia rappresentato un innesco inevitabile per personalità già annientate dalla droga e dall’odio per l’altro. Justin De Vivo, che esordisce con grande carattere, consegna tutta la ruvida dolcezza di Willy, nella forza d’animo che mostra in famiglia, o nel coraggio che offre per puntare ai suoi sogni. Il ragazzo muore per salvare un amico, e la sua breve vita è un fiore reciso troppo presto, che resta indelebile davanti agli occhi. In un mondo giovanile omologato, Willy sa di auto truccate e calcio, ma conosce il rigore nel lavoro e gli affetti veri.
È l’opposto di Maurizio, che Francesco Gheghi rende schiavo di una mediocrità vile e senza appello. Il Cosimo di Enrico Borello è un perdente con manie di grandezza, e nello stacco tra questi personaggi, l’autore tratteggia Willy, come un agnello smarrito in un borgo dove nessuno più accetta il suo spazio di destino. In paese vendere verdure non basta: meglio arrotondare criminalmente con racket, usura, spaccio, come i gemelli Federico e Lorenzo (Giordano Giansanti e Luca Petrini). Willy è un’isola, in un gruppo dove la Michelle di Beatrice Puccilli vive da traditrice i suoi no per scegliere di essere libera, mentre un patriarcato arcaico blocca in un ricatto eterno ogni volontà di rivalsa.
Gli ultimi 40 secondi di questo ragazzo possono insegnare, a chi saprà tenere lo sguardo limpido, molto più di 79 anni di Costituzione.


