Era un intellettuale libertario, ne abbiamo fatto un poliziotto della morale. E poi lo abbiamo messo a cavallo, come una statua del Risorgimento. Pier Paolo Pasolini — poeta corsaro, scandaloso, eretico — è stato prima processato, poi beatificato, quasi sempre frainteso. Come un santino laico, un monumento equestre in piazza dell’ipocrisia. Da un lato il castigatore che brandisce “Io so” come un mandato d’arresto universale, dall’altro l’icona addomesticata del nuovo moralismo, saccheggiata un po’ da tutti.

A mezzo secolo dalla morte, destra, sinistra, liberali e conservatori, populisti e moderati si accalcano nel celebrare il grande scrittore, regista e poeta, un cherry picking in cui ognuno pesca ciò che gli fa comodo: il Pasolini anticapitalista diventa bandiera della sinistra radicale, il Pasolini tradizionalista del mondo rurale diventa spauracchio dei conservatori, il Pasolini contrario all’aborto (ma non alla legge 194) è così il beniamino dei pro life, il Pasolini comunista sui generis reclutato dalla sinistra, il Pasolini che denuncia il “fascismo degli antifascisti” vezzeggiato dalla destra. Quasi tutti invece salutano in un coro trasversale il Pasolini “inquisitore” che voleva processare la democrazia cristiana e i suoi leader, riducendo il vibrante j’accuse di un intellettuale che denuncia il sistema politico evocando il “romanzo delle stragi” a una giaculatoria giustizialista da pseudo giornalismo d’inchiesta.

Come un pubblico ministero qualunque, lui che dalla magistratura italiana è stato letteralmente perseguitato, oltre 33 procedimenti giudiziari in gran parte messi in piedi per castigare la sua omosessualità ma le sue condotte contrarie alla morale e alla pubblica decenza. Dal 1949, quando i carabinieri di Casarsa segnalano la sua condotta “immorale”, al 1977, quando il procuratore della Repubblica di Milano, due anni dopo la sua morte dissequestra le bobine di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Ce lo vedete nei panni di un procuratore della repubblica?

In questo furto sistematico della sua identità Pasolini non è più un pensatore vivo, ma una proprietà condivisa, un contenitore vuoto che ognuno riempie a suo piacimento. Quando nel novembre 1974 pubblicò sul Corriere della Sera (principale quotidiano della borghesia) Io so, denunciando le trame oscure dello Stato, non pretendeva prove né condanne. Rivendicava il diritto di “sapere” come intellettuale, di leggere i segni invisibili del potere, di intuire la verità anche senza tribunali. Ma oggi lo citano come se fosse il capostipite del giustizialismo, il precursore del giornalismo-inchiesta, il giudice poetico dell’Italia colpevole. È la più radicale falsificazione del suo pensiero. Il grottesco emerge, per esempio, quando Marco Travaglio cita il processo di Pasolini nel suo vecchio spettacolo È stato la mafia, o quando l’ormai ex magistrato Antonio Ingroia titola il suo libro “Io so”, tentando di cavalcare la popolarità del motto pasoliniano in una difformante inversione di ruoli, il poeta che si trasforma in magistrato, il magistrato che si fa poeta. Quell’“io so ma non ho le prove”, come spiega bene Paolo Delgado nelle nostre pagine, diventa il punto di riferimento per chiunque voglia agitare teorie del complotto senza elementi concreti, come una suggestione permanente e impolitica.

Pasolini non accusava la DC soltanto di immoralità, ma anche e soprattutto di ignoranza storica, di non aver compreso che il potere reale non stava più nella politica ma nel nuovo ordine economico. Il suo vero reato, scrive Pasolini, era “un errore di interpretazione politica” — un delitto culturale prima che penale. Il Processo, per lui, era un rito di elaborazione, un gesto collettivo di consapevolezza. Non cercava punizioni né colpevoli, ma una “coscienza scandalosa e fuori da ogni conformismo”.

Pasolini diffidava dei moralisti, dei bacchettoni. Sapeva che dietro ogni “purezza” si nasconde la violenza. La verità, per lui, era sempre impura, attraversata dal dubbio e dal dolore. Quando negli Scritti corsari denunciava la “mutazione antropologica” del Paese, parlava di un’Italia che si stava omologando, che aveva perso la coscienza del proprio male. La sua non era una predica di pulizia, ma un atto di responsabilità. Eppure, a quarant’anni dalla sua morte, chi lo cita di più sembra aver dimenticato tutto questo: gli stessi che invocano Pasolini sono spesso i nuovi sacerdoti del sospetto, i professionisti dell’indignazione, gli impresari del processo mediatico.

I miseri interpreti di Pasolini - giornalisti da talk show, morali- sti di rete, politici travestiti da giustizieri - si credono suoi eredi. Ma sono gli stessi che alimentano la cultura della forca, che scambiano la calunnia per la giustizia e la gogna per la verità. Parlano di Pasolini e lo tradiscono, perché trasformano la sua libertà in inquisizione. Lo evocano per legittimare la violenza simbolica del populismo penale, per sostituire alla critica il linciaggio, alla coscienza il sospetto. Il poeta che difendeva i ragazzi di borgata contro la polizia e veniva trascinato alla sbarra per atti osceni è diventato, nelle loro bocche, il tutore della morale collettiva. È l’ennesimo rovesciamento: il libertario ridotto a sbirro, arruolato nella cupa schiatta dei Torquemada.