Due suggestioni in particolare si fanno strada appena iniziano i titoli di coda di “Elisa” di Leonardo Di Costanzo, ed entrambe scaturiscono naturalmente dal vissuto artistico dell’attrice protagonista: Barbara Ronchi è laureata in archeologia, e l’aver incrociato quegli studi accademici con il suo viaggio infinito nell’interpretazione cinematografica e teatrale, le ha offerto l’opportunità di scavare a fondo per dissotterrare le sfumature più segrete del suo personaggio, precluse ad altre interpreti. Inoltre, scorrendo la lunghissima e prestigiosa lista di premi ricevuti, colpisce l’attenzione proprio quello ricevuto dallo ShorTS International Film Festival di Trieste come Interprete del Presente. Ecco, nulla di più vero, viene da dire, dopo aver seguito la Ronchi nella complessità di Elisa Zanetti, donna spezzata e tormentata dall’annientamento di sé stessa, della memoria, della comunità in cui è cresciuta, forse senza mai essere stata davvero capita né accettata.

Nel passaggio al cinema, l’accento sospeso tra Francia e Nord Africa del criminologo che affida al registratore i loro incontri, racconta la doppia estraneità del fuori contro il dentro, e dell’indagine scientifica rispetto alla insospettabile banalità del male. Elisa ha forse rimosso, o non ricorda, o, peggio ancora, mistifica quel che ha fatto e che la tiene in un carcere moderno, senza sbarre, fra le montagne, comunque consegnata ai suoi disordinati, debordanti frammenti. Il film alcune settimane fa era ancora in concorso per il Leone d’Oro a Venezia, e si inserisce pienamente nel dibattito quanto mai attuale sulla recuperabilità di chi si macchia di fatti di sangue, senza apparentemente mostrare pentimento.

La pellicola oltrepassa completamente il momento della difesa e in parte anche quello dell’atto criminoso, scegliendo di narrare con la forza delle parole la dissonanza sinistra della morte inflitta senza motivo apparente. Il regista e la protagonista non provano alcuna operazione di comoda empatia: Elisa ha il volto scarno, non mangia, si sente una portatrice di doni di morte, una traditrice di verità. Elisa non vuole sconti o simpatie, ma capire chi è e perché ha agito distruggendo ogni cosa, e allora guarda il pubblico per rivelare il suo viaggio segreto oltre la colpa.

Nell’amnesia che Elisa patisce, insieme a un sopore che è insieme depressione e voglia di fuggire da se stessa, affiorano tutte le tragiche verità mai ammesse, che solo dopo anni trascorsi nel penitenziario svizzero che le consente la semilibertà e la possibilità di lavorare e di essere seguite psicologicamente, fluiscono dolorosamente nel confronto con il Professor Alaoui, che il grande Roschdy Zem salda alla realtà del confronto. Con tempi rarefatti, panorami nevosi e silenzio, e il tempo scandito dalle visite di un padre straordinario come Diego Ribon o dalle poche chiacchiere scambiate con l’agente Radice ( Giorgio Montanini) o con il direttore ( Hyppolite Girardot), Elisa consuma una lenta implosione. E Di Costanzo dopo Ariaferma, nel quale reclusi e carcerieri diventavano un unico gruppo di dannati, riesce in questo suo film a mostrare il carcere invisibile che la fragilità di una persona, le rigidità familiari, gli obblighi sociali fondano.

Elisa più che un crimine sula perdita di controllo sembra essere la storia di una degenerazione legata all’ossessione per il controllo, la pulizia, l’apparenza.

La reclusa non è un animale televisivo o una criminale orgogliosa del suo gesto, anche nella patologica menzogna in cui si dibatte: non si assolve, non cerca ribalte, lontana anni luce dalle indiziate e dalle assassine dell’era mediatica. Elisa, dopo aver cercato di dimenticarsi, guarda nel pozzo senza luce dove vivono i suoi demoni. E in un viaggio doloroso con il criminologo che ne registra i racconti e l’ascolta leggere dalla sua agenda rossa i momenti della sua follia omicida, Elisa diventa Alice che attraversa lo specchio: ritrova il senso della verità e del ricordo, riappropriandosi del male fatto, smettendo di sentirsi l’unico errore di un mondo giusto, e preparandosi, in una piena consapevolezza data anche da una completa solitudine, a mettere quel che resta di lei a disposizione del mondo esterno.

Il film ha qualche inciampo nel ritmo, e un aspetto talvolta monocorde, ma attraverso alcune svolte nel racconto e nella costante, limpida interpretazione della Ronchi, ma anche di Zem e Ribon, segue il pubblico oltre la sala, sconfiggendo quel processo di rimozione o di linciaggio mediatico cui per istinto si vorrebbe confinare ogni assassino. In “Elisa” non si parla di perdono, specie nel doloroso cameo di Valeria Golino, che espone le ragioni delle vittime, ma si riafferma la civiltà del diritto, che si batte per la dignità di chi ha sbagliato, assistendolo nel difficile viaggio di abbandono del vecchio sé. E in fondo “Il mistero di chi provoca dolore è ancora più profondo di chi lo subisce” dice il Professor Alaoui; e anche se ammetterlo può mettere in crisi ogni nostro possibile orientamento, sentiamo in questa frase istintivamente la più profonda delle verità.