“Per te”, diretto da Alessandro Aronadio, nell’anteprima stampa del Roma Cinema Fest era riuscito a graffiare il cuore anche di qualche addetto ai lavori, riuscendo a suscitare consenso e commozione palpabili, grazie a un’indiscutibile empatia, frutto di un curatissimo lavoro di scrittura.

In una mescolanza gradevole di consonanze poetiche, invenzioni comiche, gestualità, straniamento, colori, ci si era sentiti condurre per mano alla scoperta della storia dell’undicenne nominato nel 2021 Alfiere della Repubblica Italiana dal Presidente Mattarella. Molti erano rimasti colpiti, all’epoca, dalla grande dignità e dalla semplicità quasi scandalosa di quel figlio trasformatosi, per amore, nel padre di suo padre Paolo. Tratto dal romanzo “Un tempo piccolo” di Serenella Antonazzi, con l’uso di un linguaggio fresco e ironico, invero poco praticato per narrare la malattia, va detto che il film riesce felicemente a non essere didascalico né pietistico, lasciando dietro di sé un pugno di scene da ricordare, prima di scegliere un finale circolare, che ci riporta all’attualità, come è giusto che faccia ogni storia adattata dalla contemporaneità.

Infatti, pur con piccoli tradimenti rispetto alla vicenda reale che a Concordia Sagittaria pose il giovanissimo Mattia Piccoli e il suo fratellino di fronte alla durissima prova che aveva colpito il loro padre Paolo, la pellicola sa condurre il pubblico lungo i sentieri scoscesi del dolore grazie alla forte sinergia interpretativa che lega in scena il giovanissimo attore Javier Francesco Leoni ai suoi genitori Teresa Saponangelo e Edoardo Leo e al ruvido zio Giorgio Montanini.

Il film è una favola dolorosa e ha molto del romanzo di formazione: la ruvidezza tra marito e moglie si attenua, gli insegnamenti del padre al figlio come in un Tao si rinnovano a ruoli invertiti, mentre una silenziosa, densa lotta tra amore e disperazione, mette in gioco la memoria d’insieme e il senso del lavoro, delle relazioni, dell’esistenza.

Le emozioni di oggi diventano appunti per un domani che sarà necessariamente deformato e diverso, e allora ha forse ancora più senso prepararlo, quasi fosse il piano di produzione di un film che forse non si riuscirà più a comprendere. La bellezza delle piante, la complessità della natura, così come il valore di un’apparentemente banale serata in un locale, o l’osservazione degli errori scaturiti dalla quotidianità, diventano terreno di condivisione e linfa di un legame che avvolge la famiglia, portandola verso una superiore comprensione delle cose.

La vita diviene una bacheca di immagini e appunti, e non cede al ricatto della decadenza cognitiva. Ogni colpo basso è sentito e rielaborato, con un’originale scelta di regia, come una sequenza comica di cinema muto, dove Buster Keaton ma anche Groucho Marx sembrano indicare la via della resilienza contro avversari, oggetti e cadute che ogni giorno nasconde.

Per questo Paolo, sua moglie Michela e Mattia sembrano non mollare mai, perché nell’insensatezza di una vita che sembra crudele e insieme buffa come una comica in bianco e nero, si può desiderare di essere più forti di ogni bufera al punto da riuscire a superarla.

Il coraggio di mostrarsi deboli, di sapere che esiste un diritto all’errore, al pianto, alla propria incompiutezza, è la lezione che resta e che ogni padre dovrebbe, avendone il coraggio, lasciare a chi resta: perché lasciarsi prendere dall’insensata bellezza di una sera di pioggia o di una risata improvvisa, è forse l’ultima e la più privata delle libertà, nella fragilità della vita umana. Una vicenda come questa lascia sperare che esista un valico non assaltabile dal rumore freddo dell’indifferenza, e che vi governi solo la poesia dei silenzi di chi sa ancora guardarsi negli occhi con amore.