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Neanche un mese dopo i 78 anni, Stefano Benni ci lascia muti, letteralmente. La malattia lo aveva da tempo imprigionato in una coltre di silenzio. Le sue opere, un multiforme fiume carsico, viaggiavano già sotto di noi, sbucando improvvise in trenta lingue diverse, tra le coscienze e la mente di ognuno.
L’elenco dei suoi scritti, le testimonianze di un impegno politico e umanitario, la poliedricità della sua indagine di intellettuale avanguardista, sono il portato fedele di una personalità che ha incrociato due secoli fondendo forme letterarie tradizionali e multimedialità militante, declinando, nella lezione del modernismo catalano, architetture di disegni, manifesti, sceneggiature, reading, canzoni, creazioni magiche scaturite spesso da un’umanissima rabbia.
A noi resta un’indignazione sterile, smarrita, tipica degli abbandonati. Perdiamo un punto di riferimento culturale, e un antieroe capace, nel settembre 2015, di rifiutare il Premio Vittorio De Sica contestando i tagli governativi alla cultura. Stefano Benni, come altri grandi acrobati della parola, faceva di quella rabbia un fascio di luce. La lente del racconto grottesco la trasformava in infuocata satira sociale dove la passione politica non sfociava mai nell’ideologismo, e le invenzioni linguistiche, i personaggi, gli ambienti, servivano, in un continuo capovolgimento di prospettive, a seminare dubbi inebrianti come anice stellato.
Benni, come un grande caimano in un fiume di versi e artifici, azzannava all’improvviso la scena intellettuale, per poi scomparire sul fondo. Coscienza etica salda, più che usare il nome o le fattezze per fare Stefano Benni, ha preferito esserlo, scandendo l’epoca, ben oltre i frontespizi colorati della Feltrinelli. I film tratti dalle sue opere patiscono l’irripetibilità dell’ispirazione: come per l’amico Pennac, e già in Fo, Calvino, Buzzati, la fabula resta indissolubile dal suo scrigno di materia fantastica. I castelli e le distese abitati da lemmi situazioni e personaggi ricalcano fogliari e bestiari medievali, atlanti antichi, racconti di marinai.
La rabbia sociale, lucente di fantasia, diverte per migliorare, vicina nell’insegnamento multigenerazionale a chiunque tenga aperto lo sguardo verso l’iniquità del mondo, sa indicare una scelta ancora attualissima, tra lasciar libero di essere o reprimere, riconoscere come altro o distruggere. La capacità di illuminare con semitoni di colore le parole dimenticate tra esistenza e inesistenza, tracciando la materia oscura del silenzio, dell’annichilimento, della solitudine e della guerra, fa di Stefano Benni un maestro di crescita, che lo colloca tra il socialismo rivoluzionario di Proudhon e la riforma culturale araba dei secoli X e XI.
Nel 1987 la raccolta “Il bar sotto il mare” si apriva così: Che ci faccio in un Paese normale? Linguaggio e descrizione d’ambiente riuscivano ad avvolgere in una surrealtà provinciale credibile e avvincente, dove regole quotidiane adombravano il grigiore di un regime invisibile, contrapposto a ogni volo libero della mente. Anche per questo, ricordare questo autore come umorista sarebbe incredibilmente riduttivo.
Benni tecnicamente è stato anche questo, scrivendo film grotteschi e battute incredibilmente icastiche, specie nei testi, tra gli altri, del primo Beppe Grillo. Elencare le opere che oggi restano o le cose fatte, in bell’ordine, è mestiere di biografi, e curatori enciclopedici, ma il sentimento d’appartenenza conta più dell’esercizio di stile. Pensiamo che l’unico tributo all’umile grandezza di Stefano Benni sia nel leggerlo e ascoltarlo, offrendosi nel tempo, alla Grande Onda del suo sapere, per scuotere, insieme, un’Italia e un mondo sempre più disumani e antistorici, da un inevitabile destino di aridità climatica e culturale.
In questi versi ecco due che scelgono di ribellarsi, in un amore minimalista, cocciuto, eterno, in fuga dall’insulto di un tempo che degrada sentimenti e persone nell’azione distruttiva della routine. Nel 2020 l’attrice Sara D’Amario li ha recitati con grande lirismo espressivo in pieno lockdown:
Le piccole cose che amo di te (2013)
Le piccole cose che amo di te
quel tuo sorriso un po’ lontano
il gesto lento della mano
con cui mi carezzi i capelli
e dici: vorrei averli anch’io così belli
e io dico: caro sei un po’ matto
e a letto
svegliarsi col tuo respiro vicino
e sul comodino
il giornale della sera
la tua caffettiera
che canta, in cucina
l’odore di pipa che fumi la mattina
il tuo profumo un po’ blasé
il tuo buffo gilet
le piccole cose che amo di te
Quel tuo sorriso strano
il gesto continuo della mano
con cui mi tocchi i capelli
e ripeti: vorrei averli anch’io così belli
e io dico: caro me l’hai già detto
e a letto
stare sveglia sentendo il tuo respiro
un po’ affannato
e sul comodino il bicarbonato
la tua caffettiera che sibila in cucina
l’odore di pipa anche la mattina
il tuo profumo un po’ demodé
le piccole cose che amo di te
Quel tuo sorriso beota
la mania idiota
di tirarmi i capelli
e dici: vorrei averli anch’io così belli
e ti dico: cretino,
comprati un parrucchino!
e a letto stare sveglia a sentirti russare
e sul comodino
un tuo calzino
e la tua caffettiera che è esplosa finalmente, in cucina!
la pipa che impesta fin dalla mattina
il tuo profumo di scimpanzé
quell’orrendo gilet
le piccole cose che amo di te.
(Stefano Benni)