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Il Mignon di Roma riapre con un film ruvidamente poetico, che solo Robin Campillo poteva riprendere e concludere: “Enzo” segna infatti l’ultimo viaggio artistico dell’amico regista Laurent Cantet, dopo aver aperto la Quinzaine des Cinéastes al Festival di Cannes quest’anno, nel passaggio di consegne deciso da Cantet, impossibilitato a dirigere il film come avrebbe voluto dalla malattia che lo avrebbe portato via nell’aprile del 2024.
Una collaborazione e un’amicizia antiche e importanti, iniziate nel 1998 con il film tv “Les Sanguinaires”, e proseguite tre anni dopo con il film “Risorse umane”, creando una vera bottega d’arte a firma comune, caratterizzata da una spiccata curiosità sociale e da un autentico interesse per le tematiche del lavoro.
Erano poi seguiti altri lavori notevoli, premiati dalla critica e da una crescente attenzione del pubblico, con Campillo impegnato nella scrittura di “A tempo pieno”, e in seguito coinvolto come sceneggiatore e montatore in “Verso il Sud”, nel 2005. Una coppia artistica che toccava il suo apice con “La classe – Entre les murs”, Palma d’Oro a Cannes nel 2008. Dopo altre affermazioni e la piena maturità, anche come regista, Campillo ha dunque cercato di realizzare le intenzioni di Cantet, conseguendo lo spiazzante ossimoro di portare a compimento sullo schermo l’incompiutezza degli adolescenti e dell’umanità attuale, ritraendo l’esistenza contemporanea in una serie di domande aperte come un cielo stellato di notte. Il film potrebbe a pieno merito entrare nelle scuole, parlando ai liceali con il loro linguaggio, raccontando disperazione, confusione e fascino dell’età più difficile.
La coproduzione italofrancese ha coinvolto Marie- Ange Luciani di “Anatomie d’une chute” e Andrea Occhipinti di Lucky Red dando luogo a una valida alchimia interpretativa tra Élodie Bouchez e Pierfrancesco Favino, genitori dell’esordiente e già carismatico Eloy Pohu. A La Ciotat i Lumiere, cui è dedicato l’istituto tecnico del film, ambientarono una celebre pellicola. Nel borgo si parlano dialetti francesi, algerini, italiani. E nel rifiuto del sogno borghese della casa sul mare, tutta vetrate e cemento, nasce il desiderio di discontinuità, nel percorso di vita di Enzo, un ragazzo che ha imparato presto a pagare, sulla propria pelle, ogni scatto in avanti.
L’inquietudine di Enzo cova tra sacchi di calce, impastatrici e profilati di metallo, ed esplode contro la dissonante normalità dell’emigrazione per guerra, che Cantet e Campillo usano come ideale sottotesto nella tessitura erotica e silente tra il giovane apprendista muratore e il collega ucraino Vlad (Maksym Slivinskyi) Diverse uscite di strada, sullo sfondo dei panorami di Marsiglia e Tolone, e lo sguardo rivolto a falesie a picco sul mare, troppo alte per chi ha appena iniziato a scalare la vita, inaspriscono la strada del ragazzo verso l’autocoscienza.
Enzo non vorrebbe il turbamento che lo agita, e in visita a Pompei, cercando di spezzare il filo di seta che lo lega a Vlad, partito per il fronte ucraino, riafferma il suo sentimento, anche dopo la resa alla volontà genitoriale. Il film illumina le curve pericolose percorse al buio senza sapere perché né come esistere, e lo fa senza manierismi, spingendo lo sguardo verso una generazione incomprensibile come tante altre, solo perché come troppe altre abbandonata senza alcun ascolto.
Cantet non è più qui, ma al suo erede e al pubblico lascia un cinema materico, di errori e memorie, che rispetta il dramma identitario e il cantiere esistenziale che cerca di ergersi oltre ogni steccato sociale. Ci lascia il progetto di una casa di mattoni pieni, ove accogliere lo scandalo insondabile dell’adolescenza, cemento del futuro di ognuno.