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Dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma, arriva nelle sale “Cinque secondi”.
Dai primi minuti le immagini conducono lì dove il cinema è più autentico, tra territori accidentati, isolamento, oscurità, mentre notti, crepuscoli e albe alternano i loro colori riflettendo stati d’animo. Tutto converge su una rivelazione inespressa, ancorata lì dove si sono fermati il ricordo e la stessa esistenza di un uomo problematico e solo. In un preciso istante paura e colpa si sono saldate per sempre. Ma all’esterno restano oscuri il perché del rimorso, e la scelta di vivere nell’abbandono di un tempo sospeso. “Cinque secondi”, per l’abiura di sé, per un errore, per un destino, o perché forse le cose capitano e basta.
Paolo Virzì vi intesse un racconto denso su verità e dubbio, reato e pena, calandosi nel profondo delle persone per esplorarne le più intime ragioni. L’evento scatenante e le conseguenze sulle vite di ognuno non si esauriscono in un conflitto processuale tra accusa e difesa, ma si fanno psicodramma sociale nell’alternarsi di elementi che possano inchiodare o liberare la persona sotto processo. I motivi per i quali si sbaglia sono tanti, a volte inconsapevoli o addirittura legati ad altri. E poi ci sono le emozioni, l’impossibilità di perdonare e perdonarsi, la rivalsa, l’odio e il desiderio di salvare quel che resta di un rapporto.
Al pubblico ogni movimento di camera racconta piccoli cambiamenti di quella che appare una routine autodistruttiva, mentre la narrazione si svolge tra sterzate e improvvise inversioni di marcia. Adriano un tempo avvocato di successo evolve, tra commiserazione, rabbia, pietà, tenerezza, mentre intorno alla vecchia casa, gli sterpi di un’esistenza spezzata si trasformano in vigneto, in un luminoso gioco di rinascita. La giovane e brava Galatea Bellugi arriva in un lembo di Toscana con altri anarchici naturalisti.
La nobile decaduta ha una visione proletaria della vita e spirito orgogliosamente libero, e offre a Valerio Mastandrea legale in crisi profonda nuove ragioni per amare di nuovo la vita.
Il terreno incolto ritrova ritmo naturale e bellezza. Il dramma si vena d’ironia ma non perde d’intensità nella presenza di interpreti notevoli come Valeria Bruni Tedeschi, Ilaria Spada e Anna Ferraioli Ravel, mentre libertà, colpa, repressione, malattia, resistenza, genitorialità, fede, assenza sono bagaglio di un viaggio crudele e affascinante che ha come destinazione la verità.
Il film è completo in quanto scabro, e l’essenzialità visiva ne rafforza la ricerca di radici contadine rimosse. Il ciclo vitale delle piante incrocia quello umano, tra poesia del parto e fulmineità della morte. Valerio Mastandrea è in ogni chiaroscuro del personaggio, credibile sulla vetta del dramma come nei momenti di leggerezza, nell’ostinata rinuncia alla vita.
Il suo monologo di sconfitto disperato, coerente, sommesso squarcia la ritualità processuale, ribaltando la condizione di colpevolezza tra potenza della redenzione e aridità del diritto.
L’avvocato risale dal burrone per la tenacia della comune di sfrontati che lo sradicano dalle sue abitudini, e per l’amore poetico e vano della collega Valeria Bruni Tedeschi, che fa danzare sull’angoscia una gioia permanente. La rinascita sul sentiero di elaborazione del dramma è una vendemmia testarda di speranza, tra speculatori e celerini, e oggi che essere contadini è rivoluzionario, bisogna in segreto saper arare sé stessi. E dunque se un film fonde conflitto, empatia, verità, riuscendo a traghettare una vicenda processuale di coppia dalla distruzione alla comprensione dell’altro significa che merita di essere visto.


