Dopo Era d’estate, Fiorella Infascelli riprende il racconto della guerra dello Stato alla mafia. Dopo aver narrato l’isolamento di Falcone e Borsellino all’Asinara, ecco La Camera di Consiglio, in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.

È l’11 novembre 1987. Sei giurati e due giudici condividono un appartamento blindato, interno all’Ucciardone di Palermo, nella cui Aula Bunker lavorano alla sentenza del più grande processo penale di sempre, il Maxiprocesso voluto da Falcone. È uno scenario segreto, rimasto invisibile ai più, che l’autrice ricrea attingendo agli atti con vocazione documentaristica.

Dai materiali di archivio, ci si cala nello straniamento che unisce persone e ruoli diversi, nello strisciante, inevitabile conflitto tra il Presidente Alfonso Giordano e il Giudice a latere Pietro Grasso. I capi di accusa, spesso non riconducibili a prove ma solo a gravi indizi, o a testimonianze di pentiti, sono al vaglio di un inflessibile Sergio Rubini, che senza corredo probatorio, manda assolti gli imputati che Massimo Popolizio ritiene coinvolti in reati mafiosi.

Chiusi tra pareti di cemento armato, senza poter comunicare, magistrati e giuria provano oppressione, panico, sfiducia, paura. L’unico sfogo è un cortile, ma la visione delle stelle o della pioggia non restituiscono una normalità smarrita, se la struttura vista dall’alto sembra essa stessa un carcere per donne e uomini giusti. La macchina da presa indugia su forme e chiaroscuri brutalisti del bunker, un prisma vuoto circondato da mura.

Oltre la linea di demarcazione, le vite di quelle otto persone, sentono fatica, e persino vergogna per l’impresa cui si sono costrette, in contrasto stridente con la tracotanza feroce di alcuni imputati. Il film offre monologhi e dialoghi che Rubini e Popolizio elevano a forma d’arte, all’avvicinarsi della sentenza.

Il film è corale, talvolta didascalico, ma necessario e formativo, punteggiato dall’armonica di Claudio Bigagli. L’imponente gatto nero che fissa dalle finestre di cristallo i componenti della Camera di Consiglio richiama Anubi, dispensatore di giustizia, dipinto dagli Egizi nell’atto di pesare il cuore di ogni anima trapassata. E nel film si pesano nomi, e crimini, per vendetta filologica verso chi ha inteso spezzare la vita della Sicilia e del Paese, descrivendo i baratri di miseria e rari spunti di umanità in vite consacrate a dare la morte.

Dopo trentacinque giorni trascorsi a leggere atti, ascoltare deposizioni, dibattere tra innocenza e colpevolezza, e infine stendere materialmente un dispositivo di sentenza che sarebbe stato letto in novanta minuti, ecco la prima vera vittoria su larga scala dello Stato contro Cosa Nostra, che avrebbe poi innescato la stagione diversa degli attentati e delle stragi.

Quel 16 dicembre 1987, 346 imputati sarebbero stati condannati e 114 assolti in primo grado, comminando 19 ergastoli e 2665 anni totali di reclusione, ricostruendo logiche di potere e modalità operative della mafia, sconfessando chi ne aveva negli anni negato persino l’esistenza, rispondendo con il diritto a una stagione di sangue che aveva fatto oltre seicento vittime. Un film importante, di passione civile, minimalista e silenzioso, come il lavoro di operatrici e operatori di giustizia, cui è dedicato.