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Non eravamo pronti. Diciamo la verità: sapevamo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato, ma con il passare dei mesi speravamo in un nuovo colpo da maestro, stavolta necessario a riprendere a pieno l’attività agonistica e rivederlo ancora in campo. E invece no. Roger Federer si ritira e lo fa con il suo stile, pubblicando sui suoi canali social una lettera che dedica «alla mia famiglia tennistica e non solo». D’altronde gli infortuni patiti negli ultimi due anni di carriera non gli hanno permesso di far godere il pubblico di quel suo modo di giocare che tanto s'avvicina alla perfezione. E allora, Maestro, facciamo così. Non ci pensiamo, agli ultimi due anni di carriera, e partiamo dall’inizio. Da quegli esordi nel circuito quando ancora Pete Sampras e Andre Agassi si dividevano i tornei del grande Slam, prendendosi a pallate da fondo campo e aumentando a dismisura la velocità del gioco. Era la fine degli anni ’90, c’erano ancora i floppy disc e a Wimbledon non c’era bisogno che gli arbitri tuonassero «silence, please» tra uno scambio e l’altro. Poi il ragazzo di Basilea che tanto aveva fatto arrabbiare i direttori dei tornei giovanili, spaccando racchette e imprecando contro gli avversari, entrò in punta di piedi nei tornei maggiori, e da quel momento il tennis non sarebbe stato più lo stesso. Federer ha cambiato l’idea stessa di una partita, tornando all’eleganza della pallacorda del tredicesimo secolo (quando si chiedeva scusa all’avversario per avergli fatto punto) e rimuovendo il puro agonismo dei decenni che l’avevano preceduto. Ma al tempo stesso accompagnando nella modernità lo sport che prima di lui fu di Rod Laver e Bjorn Borg, di John McEnroe e Jimmy Connors. La magnifica intesa tra la sua racchetta e la pallina gli ha permesso di vincere cinque volte di fila a Wimbledon, fino all’avvento di quello che sarà il suo avversario di un’intera carriera: Rafael Nadal. Epica la finale del 2008 a Church Road, quando si confrontarono due stili di gioco opposti, due personalità l’una il contrario dell’altra, due modi di vestire in campo che più diversi non si può. Vinse Nadal, quando il crepuscolo già faceva da contorno al centrale dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. Da lì partì una rivalità storica, che termina oggi perché Federer, compiuti da poco i 41 anni, ha deciso di dire basta. «Mi considero una delle persone più fortunate sulla Terra - ha scritto - Mi è stato donato un talento speciale per giocare a tennis e l’ho fatto a un livello che non avrei mai immaginato, per un periodo più lungo di quello che avrei mai pensato». Un periodo durato più di vent’anni, e celebrato con 20 titoli del Grande Slam e 103 tornei vinti. Ha vinto dappertutto, Federer. Sull’erba di Londra e sulla terra europea, sul cemento australiano così come su quello di Flashing Meadows. Ha vinto all’ombra della Tour Eiffel, portando a casa nel 2009 quel Roland Garros tanto agognato. Due sole, grandi delusioni. La prima, non aver mai vinto l’oro olimpico in singolare, pur avendolo fatto in doppio, nel 2008 a Pechino con Stanislas Wawrinka. La seconda, nel 2019, quando in finale a Wimbledon ha sprecato due match ponti che gli avrebbero permesso di vincere per la nona volta il torneo della Regina. E adesso che anche la Regina non c’è più è giunta l’ora di fermarsi. Un momento che tutti sapevamo sarebbe arrivato ma per il quale nessuno era davvero pronto, tra coloro che amano il tennis di Federer come solo s’ama la leggerezza che trasforma la prosa in poesia.