Il ritorno di Andrej Babiš alla guida della Repubblica Ceca non è il semplice ritorno di un vecchio leader, ma il segno di una svolta politica che avvicina Praga al blocco euroscettico capeggiato dall’Ungheria di Viktor Orban e dalla “sorella” Slovacchia del premier Robert Fico. A 71 anni, il miliardario fondatore del conglomerato industriale Agrofert torna a governare dopo quattro stagioni passate all’opposizione e lo fa in un contesto europeo molto diverso da quello del suo primo mandato. Il suo rientro coincide con un crescente scetticismo verso Bruxelles, con la stanchezza dell’opinione pubblica rispetto ai costi della guerra in Ucraina e con la normalizzazione di un linguaggio politico che privilegia il nazionalismo come strumento di consenso.

La nuova coalizione è formata da ANO (Azione dei Cittadini Insoddisfatti) il partito di Babiš con l’estrema destra SPD e e i populisti di “La Voce degli automobilisti”; il premiernon dispone da solo della maggioranza e ha quindi scelto alleati che condividono una visione critica se non apertamente all’integrazione europea e contrari agli aiuti militari per Kiev.

La sintonia personale e politica fra Babiš e Donald Trump, più volte esibita nel corso degli anni, non è un dettaglio folcloristico. Indica una concezione della leadership e delle relazioni internazionali fondata sulla priorità degli interessi nazionali e sulla diffidenza verso i meccanismi multilaterali, Unione europea inclusa. Il nuovo premier ceco non ha mai invocato in modo l’uscita dall’Unione a cui promette di essere fedele, ma intende limitarne la capacità di incidere sulle politiche interne, soprattutto in materia di clima, migrazione e fiscalità. La promessa di mettere “i cechi prima di tutto” si traduce già nella prospettiva di ridurre l’aiuto all’Ucraina e nel rifiuto di alcune direttive comunitarie considerate troppo vincolanti.

Il nuovo governo nasce anche sotto il segno di vecchie ombre che non hanno mai abbandonato Babiš. Per ottenere l’incarico, il presidente Pavel ha preteso un passo concreto verso la risoluzione dei conflitti di interesse legati ad Agrofert. Il premier ha annunciato il trasferimento delle sue attività in una struttura indipendente, ma l’assenza di dettagli e la memoria delle passate controversie alimentano perplessità diffuse. Alle preoccupazioni economiche si sommano quelle giudiziarie: Babiš è ancora coinvolto nel procedimento per una presunta frode ai danni di fondi europei risalente al 2007 anche se continua a respingere tutte le accuse.

La composizione della squadra di governo introduce un ulteriore elemento di tensione. La scelta, molto contestata, di Filip Turek, leader de “La Voce degli automobilisti” e gran sostenitore dei combustibili fossili, per il ministero dell’Ambiente ha sollevato le riserve esplicite del presidente Pavel, alla luce delle indagini che riguardano il deputato per presunte violenze domestiche, violenze sessuali e vecchi episodi legati a simbologie neonaziste. I Anche questa nomina è un segnale: la coalizione di Babiš privilegia profili che incarnano una protesta sociale e culturale verso le politiche ambientali dell’UE, ma lo fa correndo il rischio di normalizzare figure altamente controverse.

Il quadro che emerge è quello di un Paese che non ha intenzione di rompere con l’Unione Europea, ma che si prepara a contestarne il perimetro, rallentarne le decisioni e ridurre gli spazi di allineamento automatico. Per Bruxelles è una novità significativa: la Repubblica Ceca era finora considerata un membro affidabile del fronte centro- europeo pro- occidentale, soprattutto dopo l’elezione di Pavel alla presidenza. Con Babiš tornato al potere e sostenuto da forze radicali, questa postura si indebolisce e si apre un margine di incertezza sulla capacità dell’Ue di mantenere un fronte compatto sulle crisi più sensibili.

Se Babiš riuscirà a governare con stabilità, la sua agenda potrebbe ridefinire non solo la posizione della Repubblica Ceca, ma anche gli equilibri della regione. L’impressione — rafforzata dalle sue dichiarazioni e dalle scelte di coalizione — è che Praga stia entrando in una fase in cui il rapporto con Bruxelles sarà più conflittualòe, e in cui la politica estera punterà a relazioni più accomodanti con la Russia di Putin.