La Casa Bianca è un paradosso architettonico: sede del capo della nazione più ricca e influente del pianeta eppure di foggia modesta, quasi dimessa, soprattutto se confrontata con i grandi palazzi del potere europeo. Basta pensare all’Eliseo, con i suoi cortili cerimoniali da ancien régime o all’austerità massiccia del Quirinale, seconda residenza presidenziale più grande al mondo.

A Washington invece occhieggia una elegante villetta neoclassica come tante altre. Un luogo che intende rassicurare più che intimidire, dare l’illusione che il potere sia vicino, quasi domestico. È l’estetica di una democrazia che vuole apparire accessibile, che non ha bisogno di cupole e scaloni marmorei per esibire la propria autorità. Eppure questo profilo minimalista espone l’edificio a uno stato di vulnerabilità permanente. Lo stesso vale per il parlamento, il palazzo di Capitol Hill assaltato e invaso con facilità sconcertante dai seguaci di Donald Trump il 6 gennaio 2021.

La sparatoria di ieri che ha portato all’arresto dell’afghano Rahmanullah Lakanwal, ex collaboratore delle forze speciali Usa a Kandahar, è solo l’ultimo episodio di una lista prolissa di attacchi, attentati, tentativi di intrusione. Almeno una dozzina negli ultimi cinquant’anni.

Nel 1974, il 34enne Samuel Byck tentò di dirottare un aereo per schiantarlo sulla residenza e assassinare Richard Nixon. Nel 1976 tocca al tassista Chester Plummer, freddato dalle guardie mentre attraversava il giardino interno con una spranga in mano.

Diciott’anni dopo, nel 1994, il veterano dell’esercito Frank Eugene Corder ruba un piccolo Cessna 150 e lo fa precipitare sul prato sud petdendo la vita nell’impatto. Appena qualche giorno dopo il medico militare Francisco Martin Duran riesce a introdursi all’interno della struttura con un fucile automatico per uccidere Bill Clinton, viene fermato dalla sicurezza prima dell’irreparabile. Stessa scena l’anno successivo quando l’ex studente di psicologia Leland William Modieskij penetra nel palazzo armato di pistola; anche lui viene arrestato in tempo e poi spedito in una clinica psichiatrica.

Nel 2011, il disoccupato Oscar Ramiro Ortega-Hernandez apre il fuoco contro la facciata, persuaso che il presidente Obama fosse una messaggero dell’apocalisse. Nel 2014, l’incredibile corsa di Omar J. Gonzalez reduce dell’Iraq che scavalca la recinzione e armato di coltello elude per diversi minuti la sorveglianza dei servizi segreti. Ci sono poi altri attacchi e intrusioni meno cruente, come quella dello studente Jeffrey Grossman che sempre nel 2014 scavalca il recinto brandendo un pupazzo di Pikachu, o lo schizofrenico Travis Reinking che nel 2017 viene scoperto in una sala d’attesa con l’intenzione di incontrare Donald Trump.

Questa mirabolante sequenza di intrusioni, sorvoli azzardati, follie solitarie e atti di situazionismo maldestro fa della Casa Bianca continua una sorta di guscio poroso, alla mercé della violenza politica o della pazzia individuale che si combinano con il culto religioso delle armi garantito dal Secondo emendamento.

Non è un caso che decine di film catastrofici, di thriller presidenziali, di blockbuster d’azione abbiano costruito un immaginario collettivo in cui l’appartamento del capo è al tempo stesso fortezza e bersaglio, tempio democratico e scena del crimine, santuario e punto debole della nazione. È il luogo dove l’eroe salva l’America all’ultimo secondo, ma anche la location dove il nemico può colpire il cuore della democrazia con inquietante facilità. Una fantasia che diventa profezia, e poi cronaca: gli assalti reali sembrano quasi rimodellare i copioni hollywoodiani, che a loro volta sembrano ispirarsi alle notizie. Un continuo gioco di rimandi tra realtà e finzione entrato nel subconscio della nazione.

In fondo, la paura dell’intruder – quella figura misteriosa, minacciosa, sempre sull’orlo di varcare un confine sacro – è un’ansia antica, quasi antropologica che percorre la cultura americana dalla sua fondazione. È il terrore della frontiera violata, del pericolo in agguato del potere vulnerabile e indifeso al punto di vivere all’interno di una casa di carta.