Non deve sorprendere che la politica, in materia di giustizia, incontri le maggiori difficoltà sulla riforma del Csm. Si tratta in fondo del provvedimento che tocca il nodo più delicato, la tensione storicamente irrisolta dall’epopea di Mani pulite: il rapporto fra potere legislativo ed esecutivo da una parte (la politica appunto) e il potere giudiziario dall’altra. I partiti sanno che un nuovo equilibrio serve. Lo cercano nella riforma in vari modi, forse sopravvalutano le potenzialità effettive del testo in discussione, e sottovalutano la necessità di una nuova autorevolezza per la rappresentanza democratica.

D’altra parte alcuni punti del ddl sul Csm possono essere migliorati davvero. E di sicuro cresce l’ansia di far meglio nonostante i tempi siano stretti. Non a caso ieri è filtrata la notizia di un imminente, ulteriore briefing fra la guardasigilli Marta Cartabia e i partiti, con un obiettivo non agevole: trovare una sintesi sui 620 subemendamenti al testo della ministra presentati dalle forze politiche. Entro le 15 di oggi i gruppi dovrebbero ridurne il numero, come ieri ha esortato a fare il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni, che intanto ha dichiarato inammissibili 60 proposte.

Come finirà? La soluzione drastica della fiducia è prospettabile in Aula, certo non durante l’iter in commissione. Qui i numeri sono sul filo, ma si giocherà in campo aperto. Alcune modifiche importanti al testo integrato Bonafede-Cartabia (il maxi- emendamento della seconda modifica in parte il testo base del primo) potrebbero a sorpresa passare. È il caso del sorteggio temperato per l’individuazione dei magistrati eleggibili al Csm, norma che secondo via Arenula presenterebbe ombre di incostituzionalità. Potrebbe esserci qualche chance anche per un’altra misura condivisa da tutto il centrodestra: la riduzione o addirittura l’abolizione dei passaggi fra pm e giudice.

Sorprese sono desinate ad arrivare riguardo al divieto di rientro nella giurisdizione per i magistrati, innanzitutto amministrativi, che assumono ruoli tecnici nei governi, a cominciare dai Capi d gabinetto. Non si tratta di modifiche irrilevanti. E sarebbe imprudente, ora come ora, pronosticare un nulla di fatto per tutte quante le ipotesi sul tavolo. Ma il punto non è neppure questo. Al centro della contesa che sembra veder schierati i “conservativi” del Pd contro i “rivoluzionari” di centrodestra (FI e Azione in prima linea) c’è soprattutto la possibilità di guadagnare, al cospetto dell’opinione pubblica, il primato di veri innovatori della giustizia. Una possibilità legata però non solo alla riforma del Csm ma anche al referendum. È vero che oggi le speranze di raggiungere il quorum sui 5 quesiti in materia di giustizia, per i quali si voterà fra maggio e giugno, sono al lumicino. Ma comunque partiti come Lega e FI, che con i radicali sono schierati per il Sì, potrebbero trovare vari espedienti per attribuire ad altri la “colpa” del mancato quorum. Potrebbero chiamare in causa la Corte costituzionale che non ha ammesso i referendum più seduttivi, il semi-boicottaggio delle altre forze politiche, la data sfavorevole che rischia di essere individuata dal Viminale.

Eppure del referendum sopravvivrà in ogni caso l’impressione di una spinta verso il cambiamento nella giustizia. E oggi nell’opinione pubblica tale propensione, per la prima volta dopo trent’anni, non è più connotata come la scelta conflittuale del vecchio centrodestra berlusconiano, puntualmente tacciato di brandire le riforme del processo per contrastare un asserito uso politico dei processi. Una strumentalizzazione lamentata all’epoca nei confronti di Berlusconi ma poi denunciata quale minaccia incombente anche sul capo di altri leader.

Un simile schema è ormai lontanissimo. Adesso la politica che pretende di cambiare la magistratura con riforme “brutali” dà agli italiani l’idea di volerlo fare perché intende ristabilire un equilibrio, e inquadrare entro un perimetro meno incerto le competenze e il potere dei magistrati. È una grande novità. Anzi, la vera grande novità è che nella percezione diffusa, ma anche nelle indicazioni di qualche sondaggio, tale riequilibrio è percepito come necessario da una fetta non più pregiudizialmente schierata dell’opinione pubblica. Non si tratta più dei fan di Berlusconi o degli elettori del vecchio centrodestra che vogliono veder ridimensionata la magistratura ostile. Si tratta invece di una “corrente di pensiero” trasversale fra gli elettori, almeno tra i più informati, che considerano ormai insostenibile un condizionamento esagerato delle toghe nei confronti della politica.

È questo il dato più importante, più prezioso, che può essere colto, per ora, solo in termini di analisi generale, e che certamente è favorito da vicende come quella di Palamara, da un complessivo discredito dell’ordine giudiziario prima ancora che da un recupero di legittimazione della politica. Ma in prospettiva la consapevolezza diffusa che, a trent’anni da Mani pulite, si debba un po’ rimettere le cose a posto fra partiti e toghe, è uno spiraglio di luce nel futuro della nostra democrazia.

Ci si arriverà lentamente, per tappe, per vie tortuose. Ma in fondo le preoccupazioni del Pd, che teme di essere “scavalcato” dagli avversari nella gara a chi è più affidabile nella politica giudiziaria, ecco, quel timore dei dem che ancora ieri si è espresso in un’intervista di Walter Verini al Tempo, nella distanza dal centrodestra che vuol «stravolgere» la riforma, rappresenta la vera novità. Oggi la politica avverte che a fare bella figura con gli elettori non è più chi appare amico dei giudici, e condivide con questi ultimi una crociata contro la politica corrotta. Oggi rischia finalmente di passare per affidabile chi, ai magistrati, vuol togliere un po’ di arbitrio. In realtà la moderazione dem, su questo versante, non può essere considerata una colpa. Ma in ogni caso nelle nuove attese degli elettori va colta un’occasione straordinaria di riscatto per tutta la politica.