«Mi sono risentito del fatto che tutta una serie di organi di stampa riportavano di uno ’scippò del procedimento a Fava. Non si è scippato niente a nessuno». Così il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, sentito nei giorni scorsi nel corso del procedimento che vede imputati l’ex magistrato Luca Palamara e l’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava nel processo nato dal filone di inchiesta della procura di Perugia sulle rivelazioni. Ielo, assistito dall’avvocato Filippo Dinacci, nel procedimento è costituto parte civile nei confronti di Fava, ora giudice civile a Perugia. «Indagare non significa arrestare, indagare vuole dire fare indagini. E nessuno ha posto ostacoli a Fava», ha detto Ielo rispondendo nel corso del controesame alle domande dei difensori di Fava, gli avvocati Luigi Castaldi e Luigi Panella. «Quello che vedevo in lui era uno che voleva spingere, che lavorava e questo mi piaceva ma cercavo di evitare che commettesse "orrori" giuridici», ha spiegato. «Da quando faccio il magistrato mi occupo di pubblica amministrazione. Mentre chi si occupa di criminalità organizzata corre rischi fisici, si ritrova sotto scorta, chi si occupa del mio settore corre rischi reputazionali - ha detto Ielo che a Roma coordina il pool che si occupa dei reati contro la pubblica amministrazione - Se non mi fossi astenuto su Condotte ed Eni, se non ci fosse stato quel trojan, cosa sarebbe successo? Probabilmente ora mi ritroverei davanti alla procura di Perugia, al Csm, a difendermi. Ho subito attacchi da fuori e sono sempre stati respinti, ma ’il dannò da dentro non me lo aspettavo, da quello non ero protetto». Ielo in aula nella scorsa udienza rispondendo alle domande dei pm Gemma Miliani e Mario Formisano, titolari dell’inchiesta, aveva ricostruito come Fava «disattese la richiesta di fare uno stralcio sulla vicenda Eni-Napag sapendo che su quella vicenda mi sarei astenuto. Lui mi disse che c’era una tale interconnessione da non poterlo fare: questa cosa qui puoi dirla a uno che non fa il mestiere non a uno che fa questo lavoro». E anche oggi nel corso del controesame ha ribadito il punto sottolineando: «Fava mi aveva detto che avrebbe stralciato, e in quel momento le sue parole erano per me oro zecchino e mi fidavo, poi non l’ha fatto. Fava ce l’aveva con me. Discutere con lui in quel momento - ha detto Ielo - era come farlo con un tazebao». Nel processo, che si è aperto il 19 gennaio scorso davanti al Tribunale di Perugia, a Palamara e a Fava viene contestato di aver rivelato notizie d’ufficio «che sarebbero dovute rimanere segrete», e in particolare «che Fava aveva predisposto una misura cautelare nei confronti di Amara per il delitto di autoriciclaggio e che anche in relazione a tale misura il procuratore della Repubblica non aveva apposto il visto».  Nel procedimento Fava, all’epoca dei fatti sostituto procuratore nella capitale, è accusato di essersi «abusivamente introdotto nel sistema informatico Sicp e nel Tiap acquisendo verbali d’udienza e della sentenza di un procedimento». Fatto che secondo i pm avveniva «per ragioni estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso era attribuita». Il suo obiettivo, secondo l’atto di accusa «era di avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone, da poco cessato dall’incarico di procuratore di Roma e dell’aggiunto Paolo Ielo» da effettuarsi anche con «l’ausilio» di Palamara «a cui consegnava tutto l’incartamento indebitamente acquisito». Secondo l’accusa Fava avrebbe acquisito atti di procedimenti penali «per far avviare un procedimento disciplinare nei confronti dell’allora procuratore Pignatone» e «effettuare una raccolta di informazioni volta a screditare Ielo, anche attraverso l’apertura di un procedimento penale a Perugia» e quindi «a cagionare agli stessi un danno ingiusto». (Adnkronos)