Di fronte alle atrocità che Putin ha compiuto e sta compiendo contro l’Ucraina si leva sempre più spesso l’auspicio per cui, prima o poi, possa essere chiamato a risponderne di fronte alla giustizia internazionale.

Ci sentiamo coinvolti e tutti nutriamo l’esigenza, quasi antropologica, di sapere che certi crimini - così gravi da colpire le coscienze dell’intera umanità verranno giudicati in qualche sede superiore e i responsabili non resteranno impuniti.

È sempre stato così, fin dai tempi in cui questa giustizia superiore era quella divina, rimessa al Pantheon degli dei e poi all’unico Dio. Oggi, invocare una giustizia internazionale, sia essa affidata alla Corte Penale Internazionale dell’Aia o un Tribunale creato ad hoc, soddisfa un bisogno diffuso di giurisdizione universale, ma porta con sé il rischio di stravolgere ( e travolgere) le finalità tipiche dello strumento penale e processuale, dandogli valenze quasi fideistiche ( la giustizia appunto del buon dio), a scapito dell’azione politica globale che ne esce fiaccata o pretermessa.

Intendiamoci, la prospettiva di una superiore giustizia gestita a livello sovranazionale ha avuto un suo valore deterrente, più o meno incisivo e, in esito all’ultimo conflitto mondiale, i processi di Tokio e Norimberga hanno mostrato che i responsabili di crimini internazionali possono essere chiamati a pagare, anche con la vita.

Ma, a fronte di istanze drammatiche e contingenti, la giustizia dà risposte prospettiche, che implicano attese lunghe anni che, sappiamo, si mutano in decenni. Una prospettiva, dunque, che necessita anche di rivolgimenti politici, che consentano ciò che altrimenti non è nemmeno praticabile, come ci ha insegnato Carla Del Ponte parlando del muro di gomma contro cui si scontrarono le sue indagini come Procuratore per i crimini nell’ex Iugoslavia.

Oggi la prospettiva di rendere giustizia a livello internazionale per tutti coloro che stanno subendo i drammi connessi alla guerra di aggressione in Ucraina è concreta, ma non si possono tacere le molte difficoltà.

I crimini di guerra e contro l’umanità che si stanno perpetrando in queste ore potranno essere giudicati dalla Corte Penale Internazionale e, per il crimine di aggressione, esperti e studiosi stanno ipotizzando l’istituzione di un Tribunale speciale. Ma la Russia sappiamo non riconosce la giurisdizione della CPI ( figuriamoci se mai accetterebbe quella di un giudice internazionale ad hoc sulla sua aggressione all’Ucraina) e questi organi di giustizia internazionale non celebrano processi in absentia; dunque, anche ad indagini concluse e con mandati d’arresto internazionali a carico dell’establishment putiniano - o ai sodali nella lunga catena di comando – ricordiamoci che i processi si celebreranno solo se il meccanismo di cooperazione giudiziaria tra gli Stati funzionerà, consentendone la cattura e la consegna.

Pensando a quanto accadde con Al Bashir, non c’è da esser troppo speranzosi e altrettanto scetticismo lascia la residua prospettiva di un renverser delle sorti politiche in Russia, tale da consentire una consegna di Putin e accoliti alla giustizia internazionale. Esempi passati ve ne sono, sempre in terre slave, con gli arresti di Milosevic e Mladic, ma il paragone è difficile da sostenere, perché diversi furono il contesto storico e temporale, così come quello giuridico con i processi dinnanzi al Tribunale speciale dell’Onu.

Sull’altro fronte l’Ucraina, pur non essendo ancora Stato parte del trattato istitutivo della CPI, fin dal 2014 ha sottoscritto appositi agreements, per sottoporre alla sua giurisdizione gli eventuali crimini di guerra e contro l’umanità connessi dapprima all’invasione della Crimea, e successivamente anche al conflitto nel Donbass con ogni suo ulteriore sviluppo ed estensione.

Una richiesta di giustizia, formulata anni fa, che oggi riprende vigore dopo l’aggressione di Putin, il cui crimine però resta privo di tutela dinnanzi alla CPI per assenza in concreto di giurisdizione, non essendo stato ricompreso in quegli accordi.

Proprio l’annessione della Crimea e i morti del Donbass, stanno a dimostrare quanto lunga e irta sia la strada da percorrere fra la denuncia dei crimini internazionali e il giudizio sui medesimi.

In un passato anche recente, la dilatazione dei tempi d’indagine sui crimini internazionali era correlata alla difficoltà di reperire “sul campo” gli elementi di prova, vuoi per la distanza temporale dagli eventi, vuoi per la difficoltà intrinseca di raggiungere luoghi e persone coinvolte. Individuare le fosse comuni, rintracciare testimonianze, ricostruire teatri di guerra in assenza di documentazione topografica o fotografica.

Ma i tempi mutano rapidamente, e la guerra in Ucraina in ciò differisce da altri precedenti conflitti armati, perché tutto è documentato o sovraesposto dai social media.

Così, mentre il Prosecutor della CPI ha annunciato che una task force del suo ufficio è già operativa sul terreno di guerra per raccogliere materiale d’indagine, la popolazione e la società civile ucraina viene coinvolta in questo sforzo di reperimento, con diffusione capillare nei vari scenari del conflitto.

Per non disperdere o inquinare questa documentazione, è stato così predisposto un sito web a cui fare riferimento per ottenere tutte le informazioni ( con relativi tutorials, compresa un’app per foto e video da cellulare) www. ukrainetjdoc. org.

Nell’era social dove tutti sono connessi e ( quasi) tutto è virtuale, ci sono civili ( e fra questi, vogliamo sottolinearlo, anche gli avvocati) ucraini che in tempo di guerra stanno documentando la realtà di chi combatte, scappa e muore davvero; salvando documentazione che sarà fruibile e a disposizione anche per i dossier processuali.

È un bene dunque che, fin da subito, la giustizia internazionale si muova nella prospettiva di celebrare processi che condannino i responsabili, a tutela delle vittime dei crimini di guerra, contro l’umanità e d’aggressione: perché davvero non c’è pace senza giustizia.

Ma non vi è dubbio che quella giudiziale, anche e soprattutto in ambito internazionale, è prospettiva di lungo ( anche se speriamo non lunghissimo) respiro, che da sola non può sorreggere l’esigenza politica ma soprattutto l’istanza umanitaria di far cessare tali orrendi crimini. Perché è altrettanto vero che non c’è pace senza libertà.

ELISABETTA GALEAZZI *

EZIO MENZIONE**

* Counsel on the list of ICC – Membro eletto ICCBA Consiglio dell’ordine degli avvocati presso la CPI

** Osservatore internazionale UCPI