Non è vero, almeno stando alle rivelazioni del Guardian, che Israele non si cura dei giudizi della Corte penale internazionale dell’Aja, un tribunale che non ha mai riconosciuto e che ritiene “nullo”. Al contrario, i vertici dello Stato ebraico sarebbero così preoccupati dalle iniziative della Cpi da provare a influenzarne indebitamente le decisioni. Con ogni mezzo a disposizione: inizialmente con la tecnica del “poliziotto buono”, attraverso la seduzione, poi con metodi più spicci e manipolatori. Lo sostiene il quotidiano britannico che cita fonti interne ai servizi di Tel Aviv e alla stessa Corte secondo cui nel 2021 il capo del Mossad Yossi Cohen, fedelissimo del premier Netanyahu e oggi tra i negoziatori di Israele per riportare a casa gli ostaggi nelle mani di Hamas, esercitò pressioni pesantissime, «sconfinando nello stalking» nei confronti dell’allora procuratrice capo, la kenyota Fatou Bensouda. Bisognava fermare l’inchiesta che aveva aperto anni prima su presunti crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano in Cisgiordania.

Un’opera di lobbing del tutto inaudita verso un organismo indipendente come la Corte dell’Aja, condita addirittura da minacce in stile mafioso rivolte in forma più o meno velata alla procuratrice e ai suoi familiari, «tattiche spregevoli» commenta una delle fonti anonime citate dal quotidiano: «Dovresti aiutarci e lasciare che ci prendiamo cura di te. Non dovresti immischiarti in cose che potrebbero compromettere la tua sicurezza o quella della tua famiglia», le avrebbe detto Cohen al termine di un incontro.

Gli 007 di Tel Aviv avrebbero registrato ogni colloquio e monitorato ogni attività svolta dal marito di Bensouda che lavorava come consulente del ministero degli Esteri del Kenya. In un’occasione Cohen ha mostrato alla giudice una fotografia in cui la coppia era in vacanza a Londra. A quel punto Bensouda si sarebbe confidata con alcuni funzionari della Corte penale, allarmata da tanta insistenza, gli stessi che hanno in seguito parlato con il quotidiano britannico ma non hanno denunciato pubblicamente i fatti.

I contatti segreti tra Bensouda e Cohen «che agiva come messaggero ufficiale di Netanyahu», oltre che a influenzare i verdetti della Cpi avevano anche lo scopo di costruire «una campagna diffamatoria» nel caso in cui le inchieste fossero andate male per Israele e in senso lato a indebolire la Cpi avvertita come una «minaccia» da parte del governo israeliano. All’interno dell’ufficio del pubblico ministero il Mossad avrebbe avuto anche diverse talpe o informatori, racconta al Guardian un alto funzionario di Tel Aviv.

In questa operazione di sabotaggio della Corte penale internazionale Israele ha trovato un alleato inatteso, l’ex presidente della Repubblica democratica del Congo Jospeh Kabila che avrebbe fatto pressione su Bensouda per archiviare le indagini, partecipando ad alcuni incontri con Cohen. Non sono chiari i motivi che hanno spinto Kabila a sostenere la campagna del Mossad; il sito israeliano TheMarker riferisce di diversi viaggi di Cohen in Repubblica democratica del Congo tra il 2018 e il 2022 in cui avrebbe discusso con Kabila di questioni «di interesse nazionale» che riguardavano proprio la Cpi e il comportamento della procuratrice generale Bensouda. Tutta l’operazione si sarebbe però rivelata un fallimento e non avrebbe avuto «nessun impatto» sul lavoro della procura.

Il Guardian ha contattato un portavoce del governo Netanyahu per ottenere conferme o smentite. Secca la replica: «Le domande che ci fate sono piene di molte accuse false e infondate che servono solo a danneggiare lo Stato di Israele».