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This photo released by an official website of the office of the Iranian supreme leader, shows Supreme Leader Ayatollah Ali Khamenei in a televised speech, under a portrait of the late revolutionary founder Ayatollah Khomeini, Friday, June 13, 2025. (Office of the Iranian Supreme Leader via AP)
I segnali che arrivano da Israele parlano chiaro: Benjamin Netanyahu non si accontenta più di annientare il programma nucleare iraniano. L’obiettivo ormai conclamato del premier israeliano e del suo governo ultranazionalista è il cambio di regime a Teheran. Ma non è detto (anzi è altamente improbabile) che la caduta del regime degli ayatollah spalanchi le porte a una democrazia amica di Israele e dell’Occidente una narrazione troppo meccanica e telefonata per non suscitare scetticismo.
Per immaginare come potrebbe essere l’Iran post-bellico considerare la complessità delle sue istituzioni, un ibrido tra struttura repubblicana e potere religioso, tra elezioni e repressione, tra confronto politico e censura. All’interno di questo equilibrio instabile si muovono forze molto diverse, non sempre compatibili, non sempre prevedibili. Per questo, qualsiasi scenario post-Khamenei non potrà che essere il risultato di una lotta di potere dura, caotica, imprevedibile.
Scenario numero uno: Khamenei viene ucciso dall’esercito israeliano e tutto il potere passa nelle mani dei Guardiani della Rivoluzione. Nati come milizia ideologica per difendere la Repubblica Islamica, i pasdaran sono la spina dorsale del regime. Detengono il potere militare, hanno una rete capillare di interessi nell’economia sommersa e legale, influenzano direttamente la Guida. Prendendo il controllo, formalmente per garantire l’ordine e “proteggere la Rivoluzione” il volto del regime sarebbe ancora più feroce e militarizzato. Non è escluso che provino a pilotare la successione, magari sostenendo il figlio di Khamenei come nuova Guida.
Un secondo scenario — più incerto, ma possibile — è quello di un compromesso interno, favorito da settori moderati e pragmatici del regime. Alcuni segmenti dell’establishment, pur legati alla Repubblica Islamica, riconoscono da tempo la crisi di legittimità che affligge il sistema. Elezioni con affluenza sotto il 40%, candidati moderati esclusi dalle liste, proteste cicliche e repressione sistematica stanno logorando il consenso. In questa situazione, alcune componenti — all’interno del parlamento (Majles), dell’Assemblea degli Esperti, del Consiglio delle Scelte — potrebbero tentare di ridimensionare il potere assoluto della Guida Suprema, magari rafforzando la figura del presidente o aprendo a riforme graduali. Sarebbe un Iran ancora autoritario, ma meno ideologico, più pragmatico, più aperto sul piano economico e diplomatico e anche dei diritti civili e dei costumi.
Più drammatico è il terzo scenario, quello della dissoluzione sistemica e del governo imposto dai vincitori. In caso di caduta improvvisa della leadership clericale e in assenza di un progetto di transizione credibile, l’Iran potrebbe precipitare nel caos. Le potenze straniere — Stati Uniti, monarchie sunnite del Golfo, Israele — potrebbero tentare di imporre soluzioni artificiali, magari sostenendo figure improbabili come Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià. Una restaurazione grottesca, già accarezzata da alcuni circoli neoconservatori Usa, che difficilmente troverebbe legittimità nella popolazione. Il pericolo di una deriva irachena, libica o afghana è tangibile: frammentato, destabilizzato, in preda a milizie rivali, esecutivi fantoccio e ingerenze straniere, sarebbe un laboratorio dell’instabilità, in cui gli stessi Guardiani, da forza repressiva, potrebbero tornare a porsi come garante dell’unità nazionale.
Infine, c’è lo scenario più affascinante ma anche il più fragile: quello di una rivolta popolare. Netanyahu ha dichiarato che la decisione di “ribellarsi questa volta spetta al popolo iraniano”. In effetti, le proteste degli ultimi anni — dall’Onda Verde del 2009 alle manifestazioni del 2022 nate dall’uccisione della giovane Mahsa Amini da parte della polizia morale — hanno dimostrato che una parte significativa della popolazione iraniana rifiuta sia la teocrazia che l’autoritarismo militare. La sete di libertà è reale, diffusa, profonda.
Ma la repressione è implacabile, l’opposizione frammentata, le alternative politiche poco organizzate nonostante l’estrema vitalità della vita sociale. Eppure, una transizione democratica non è impossibile. Potrebbe non assomigliare affatto a una democrazia “all’occidentale”, ma nascere da dentro la cultura iraniana, trovare un proprio equilibrio tra modernità e tradizione, tra pluralismo e autorità. Una democrazia non esportata, ma conquistata.