Benyamin Netanyahu è il primo ministro più longevo della storia israeliana: oltre diciassette anni complessivi dal lontano 1996, più di David Ben Gurion il fondatore dello Stato ebraico che si fermò a 13 anni. Spregiudicato e pragmatico allo stesso tempo, “Bibi” ha costruito la propria fortuna politica trasformando le crisi più nere in strumenti di espansione del suo potere, imponendo ogni volta, la propria centralità e risorgendo ogni volta dalle proprie ceneri.

Dopo gli attacchi terroristi del 7 ottobre, i più cruenti nella storia della nazione, ha cavalcato lo sgomento e la rabbia e ha deciso di seguire la linea tracciata dalla destra suprematista, trasformando il diritto alla difesa in una sanguinosa rappresaglia contro la popolazione palestinese, senza distinzioni tra miliziani armati e civili inermi.

Non importa che Netanyahu sia attualmente l’uomo politico più detestato del pianeta, che sulla sua testa penda un mandato di cattura della Corte penale dell’Aja per crimini di guerra, che con la sua guida Israele è oggi una nazione isolata dalla comunità internazionale ( con l’importante eccezione degli Stati Uniti), che domenica prossima l’opposizione ha annunciato lo sciopero generale per fermare la sciagurata offensiva militare nella Striscia.

All’orizzonte non si intravede nessuna alternativa, nessuna forza o personalità politica che possa porre fine al suo dominio, almeno fino all’autunno del 2026, quando sono previste le prossime elezioni legislative. Lo stato di guerra permanente gli consente di rimanere saldo al comando della nave, di sottrarsi ai guai giudiziari interni, di continuare nel governo di quel caos che lui stesso ha creato. Persino le defezioni di singoli partiti – come quella, lo scorso luglio, di una formazione ultraortodossa contraria alla fine dell’esenzione dal servizio militare – non hanno provocato sussulti nell’esecutivo.

È vero che i ministri ultranazionalisti come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich hanno contestato pubblicamente il piano per Gaza presentato dal premier che prevede l’eliminazione definitiva di Hamas, la liberazione degli ostaggi, l’occupazione militare dell’Idf e in un vago futuro la consegna della Striscia a imprecisate «forze arabe», probabilmente non palestinesi. Troppo soft, troppo morbido perché non prospetta la cacciata definitiva di tutti gli abitanti arabi e la ricolonizzazione della Striscia che, nella testa dei falchi, deve tornare a essere terra ebraica.

Ma si tratta chiaramente di un gioco delle parti: dalle stragi del 7 ottobre Smotrich e Gvir hanno praticamente ottenuto tutto quello che hanno voluto: un’accelerazione delle politiche espansionistiche in Cisgiordania con nuove colonie autorizzate dal governo ( lo scorso maggio ne sono state approvate altre venti nella sola Jenin), un ampliamento della libertà d’azione delle milizie armate dei settlers. Le milizie dei coloni, spesso protette da esercito, polizia e tribunali, hanno intensificato le pressioni sulle famiglie palestinesi per abbandonare le proprie terre. Ma soprattutto, è stata marginalizzata qualsiasi prospettiva di Stato palestinese. Una vittoria totale insomma.

In questo contesto, l’ offensiva verbale di Gvir e Smotrich serve anche a rafforzare il loro profilo politico e a rincuorare la base, più che a minacciare realmente la sopravvivenza del governo. Anche perché l’unico dato certo è che l’esercito occuperà Gaza per chissà quanto tempo in un’operazione complessa che nei prossimi mesi rafforzerà la presenza di Israele nell’enclave palestinese. Il futuro della Striscia invece è del tutto incerto a parte le deliranti riviere evocate da Donald Trump e i fantomatici emiri che dovrebbero governarla.

L’opposizione, che nelle ultime settimane ha ritrovato vigore scendendo in piazza praticamente tutti i giorni denuncia il cinismo di una linea che rischia di condannare gli ostaggi rimasti in vita. «Moriranno gli ostaggi, moriranno i soldati, l’economia crollerà e con essa la nostra immagine internazionale», ha riassunto il centrista Yair Lapid annunciando un grande corteo durante lo sciopero generale di domenica in cui saranno presenti anche le famiglie degli ostaggi. Ma anche tutta quella parte di società israeliana che tiene gli occhi aperti sui massacri e sulla tragedia umanitaria di Gaza ritenendola un suicidio morale per la stessa Israele.