Abituato com’ero ai tempi di Giovanni Leone, ben prima in verità, che egli diventasse presidente della Repubblica, frequentandolo da presidente della Camera o da senatore a vita, a scherzare sulle sue abitudini scaramantiche, che lo portavano a premunirsi a modo suo di ogni segno che potesse sembrargli sfavorevole, mi sono più volte chiesto in questa diciottesima legislatura cominciata nel 2018 come lui l’avrebbe vissuta. E mi sono sempre detto che l’avrebbe vissuta malissimo, pur essendogliene capitate nella lunga esperienza politica di tutti i colori davvero. A cominciare dalla tragedia del suo e anche mio carissimo amico Aldo Moro. Al cui soccorso, durante i 55 giorni di prigionia nelle mani delle brigate rosse, egli non esitò un istante a prestarsi, pronto a graziare di sua esclusiva e insindacabile iniziativa, tra le resistenze del governo e della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, una terrorista compresa nell’elenco dei “prigionieri” indicati dai terroristi per scambiarli in massa col presidente della Dc.

Gli assassini uccisero Moro precedendo di qualche ora l’iniziativa di Leone, pur di sottrarsi a una discussione che li avrebbe spaccati al vertice dell’organizzazione terroristica. E i partiti - al loro solito, verrebbe da dire - reagirono come più vigliaccamente non avrebbero potuto. Imbastirono contro Leone un sostanziale processo di insubordinazione politica alla linea della cosiddetta fermezza, occultato da tutt’altri argomenti come la presunta necessità di dare un segnale di maggiore credibilità dopo un referendum contro il finanziamento pubblico delle forze politiche vinto per il rotto della cuffia. E Leone fu costretto a dimettersi sei mesi prima della scadenza del suo mandato lasciando il Quirinale sotto una pioggia torrenziale che sembrava apposta di disapprovazione celeste di quell’atto di prateria politica quale fu di fatto l’estromissione del presidente della Repubblica, addirittura impedito dal governo a rilasciare una intervista a propria difesa alla maggiore agenzia di stampa nazionale.

A Leone era già capitato da giovane, con tutta la sua competenza giuridica, maestro di generazioni di avvocati e professori di diritto, di assistere esterrefatto a un incursione comica nella politica nazionale: quella qualunquistica di Guglielmo Giannini, rocambolescamente conclusasi proprio nella regione di Leone, la Campania, col tentativo di quell’estroso personaggio di tornare in Parlamento come indipendente, pensate un po’, nella Democrazia Cristiana.

Morto nel 2001, dodici anni prima dell’approdo dei grillini alle Camere e diciassette anni prima del loro ritorno, nel 2018, come partito addirittura di maggioranza relativa, qual era stata la sua Dc ininterrottamente dal 1948 al 1992, Leone si risparmiò - beato lui - l’esperienza a dir poco rocambolesca di una simile, eccentrica svolta storica e politica. Alla quale sono sicuro che non avrebbe saputo reggere fisicamente, neppure nei giorni migliori del suo umorismo, che pur era proverbiale. Figuriamoci se avesse accettato da presidente della Camera di scambiare per uno statista in erba un giovane vice presidente abituato sino a poco prima a vendere bibite allo stadio della sua Napoli: cosa perfettamente legittima per carità, ma inusuale sino ad allora, diciamo così.

Senza voler fare il menagramo, peraltro non avendo neppure la barba filosofica e fisica contestata dal solito Massimo D’Alema al povero Massimo Cacciari, di tutte le legislature che mi è capitato di vivere e di raccontare da giornalista quella in corso è stata davvero la più sfigata, come si dice a Roma, o fra le più sfortunate. Eppure ve ne sono state anche drammatiche sotto tutti i punti di vita: da quelle contrassegnate dal terrorismo a quella delle riserve auree quasi sequestrate e del prelievo forzoso dai depositi bancari, o della Repubblica delle Procure sostituitasi alle più modeste e delimitate Procure della Repubblica sancite dal nostro ordinamento costituzionale.

È una legislatura, quella fortunatamente all’epilogo, mancando ormai solo un anno alla sua scadenza, se sarà davvero ordinaria. che ha rischiato di cominciare nel 2018 addirittura con la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica davanti alla Corte Costituzionale per avere egli osato non accettare a scatola chiusa l’elenco dei ministri sottopostogli da un presidente del Consiglio che pure aveva con molta buona volontà accettato di nominare pur avendo ben poca esperienza politica e amministrativa, non a caso proposto agli elettori - nella infatuazione della campagna elettorale - al massino come un ministro, l’ennesimo della pubblica amministrazione, o della riforma burocratica, come si diceva una volta. E a lanciare l’impeachment, trattenuto all’ultimo momento dal garante comico per fortuna non preso in quel momento da impegni di teatro, era stato proprio quello statista in erba e capo del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio, nel frattempo guadagnatosi col collega leghista Matteo Salvini i galloni di vice presidente del Consiglio, con compiti per niente nascosti di diretta vigilanza sul capo del governo.

Ci sono capitate in questa legislatura l’emergenza della pandemia e quella addirittura della guerra in Ucraina, E per un puro miracolo abbiamo a Palazzo Chigi Mario Draghi, pur dato dai soliti per disperso o quasi, e non un terzo governo Conte con Alessandro Di Battista al ministero degli Esteri, secondo il quale staremmo perdendo il tempo con quell’oleogramma, nulla di più, che sarebbe l’Europa.