di Ivano Iai*

A piccoli passi, ma sui chiodi ben piantati nella scalata di una roccia insidiosa, la Corte costituzionale sta riequilibrando il sistema della difesa secondo l’originario valore che ispirò i Costituenti nella carta fondamentale. E così, dopo le pronunce che hanno dissolto un rigore inumano nel contesto dei reati ostativi, ora quel diritto inviolabile che troppo spesso è stato sacrificato in nome di un’apparente tutela sociale dai rischi connessi ai benefici penitenziari, riacquista alcune delle proprie forme espressive per poter finalmente spiegare, in favore delle persone in stato di detenzione, i tanti effetti positivi a lungo compressi.

Con la recentissima sentenza 24 gennaio 2022, n. 18, la Corte ha, infatti, riconosciuto, e perciò stigmatizzato, la violazione del diritto di difesa intravedendo nel visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e il proprio difensore l’illegittimità della disposizione nella parte in cui non esclude dal controllo epistolare della struttura carceraria le comunicazioni scritte di natura difensiva.

Era stata la Corte di cassazione a sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 41- bis, comma 2- quater, lett. c) della legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, avendone prospettato un contrasto con alcune disposizioni della Costituzione (gli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, c. 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti umani), nella parte in cui prevede – per i detenuti sottoposti al regime del c. d. carcere duro – il visto di censura della corrispondenza, senza tuttavia escludere dall’inspicere sui contatti con l’esterno quella intercorrente con i difensori.

Sebbene la decisione della Corte costituzionale abbia generato reazioni contrapposte, talune delle quali alimentate dal timore di un possibile travaso esterno di informazioni senza controllo a vantaggio delle organizzazioni criminali che conservano – e addirittura aumentano – la propria forza in ragione del contatto con i sodali reclusi nelle strutture penitenziarie, in particolare capi e organizzatori, la lettura dei motivi che conducono al dispositivo di illegittimità costituzionale dell’art. 41- bis, comma 2- quater, lett. c) induce a più ragionate riflessioni, come peraltro ricordato dall’Unione italiana delle Camere penali.

Nella parte motiva della sentenza n. 18, la Corte ha, infatti, riconosciuto che oggetto di tutela, con riferimento alla segretezza della corrispondenza tra detenuto e difensore, non è lo status giuridico di quest’ultimo come persona fisica nell’esercizio della funzione difensiva, ma il diritto inviolabile di difesa quale prerogativa dello Stato alla legalità e al rispetto delle regole, prime fra tutte quelle costituzionali che sollecitano la legge alla piena attuazione dei valori fondamentali dell’ordinamento democratico.

Considerati, inoltre, i caratteristici effetti ex tunc della pronuncia che espunge ab origine dall’ordinamento la norma incostituzionale, la sentenza della Corte ha un’innegabile e più ampia portata giacché, in generale, apre alla prospettiva di illegittimità delle disposizioni che integrino una violazione del diritto di difesa ogniqualvolta la compressione del diritto inviolabile contenuto nell’art. 24 della Costituzione comporti una lesione delle prerogative dello Stato alla salvaguardia e alla protezione del principio di legalità.

E la nuova apertura della Corte, che oggi frantuma le disposizioni del regime carcerario contrarie alla Costituzione, non potrà che spiegare ulteriori effetti sul fronte delle variegate modalità interlocutive tra assistito e difensore, in particolare quelle dei colloqui – de visu, telefonici, telematici – sfortunatamente ancora assoggettate a un inspiegabile controllo dell’Autorità nel caso in cui siano state disposte intercettazioni nei confronti dell’indagato.

La più recente riforma in materia non ha, infatti, del tutto scongiurato l’intromissione (indebita) dell’Autorità nelle conversazioni tra avvocato e assistito, limitando il divieto alle trascrizioni (illegali) e non all’ascolto (protetto da un limbo di sospetta curiosità), così da permettere un inaccettabile residuo di conoscibilità delle comunicazioni difensive la cui violata segretezza è vulnus irrimediabile nel rapporto difensivo. (*avvocato)