Le “Black Alert”, il nuovo sistema di messaggistica creato all’interno delle comunità ultra-ortodosse israeliane per mobilitare in pochi minuti centinaia di manifestanti contro gli arresti dei renitenti alla leva, sono ormai il simbolo di una tensione che attraversa lo Stato d’Israele nel momento forse più delicato della sua storia recente.

In un Paese provato dalla guerra a Gaza — dove, nonostante la tregua intermittente, continuano a cadere vittime e a crescere le esigenze di sicurezza — la questione della leva obbligatoria è diventata il cuore di uno scontro politico, sociale e identitario. Ed è proprio a partire da quelle notifiche nere che si diffondono da un quartiere all’altro di Gerusalemme che si può leggere la profondità di un conflitto interno che non riguarda solo l’esercito, ma la definizione stessa di cittadinanza.

Da decenni gli uomini ultra-ortodossi, gli Haredi, dedicati allo studio della Torah nelle yeshivah, godevano di una deroga quasi automatica al servizio militare. Un sistema di rinvii annuali permetteva loro di evitare l’arruolamento e continuare una vita interamente consacrata alla religione. Ma questo equilibrio è crollato il 25 giugno 2024, quando la Supreme Court of Israel ha dichiarato incostituzionale l’esenzione generalizzata, stabilendo che lo Stato non può perpetuare un trattamento di favore che aggira l’obbligo di leva per un intero gruppo sociale.

La decisione ha costretto il governo a redigere un nuovo disegno di legge che traduca in norma la sentenza e reintroduca, di fatto, gli Haredi nel circuito della coscrizione militare. Le vecchie disposizioni temporanee sono state formalmente annullate, e i numeri parlano da soli: nell’ultimo anno sono partiti ventiquattromila avvisi di leva destinati ai giovani ultra-ortodossi, ma soltanto circa milleduecento si sono effettivamente presentati nei distretti militari. Una discrepanza che rivela tutta la distanza tra l’intenzione legislativa e la realtà sociale.

La proposta in discussione alla Knesset ha così incendiato il dibattito pubblico. Nella maggioranza di destra, alcuni deputati minacciano di opporsi pur di non destabilizzare gli equilibri della coalizione, mentre altri denunciano un testo troppo timido, incapace di garantire un’effettiva uguaglianza degli obblighi. Sul versante religioso, la reazione è stata immediata e furibonda: migliaia di uomini in abito nero hanno riempito le strade di Gerusalemme al grido di “servire l’esercito significa rinunciare alla Torah”. Per molti, l’arruolamento non è soltanto un dovere sgradito, ma un attacco diretto alla propria identità spirituale; alcuni leader comunitari hanno persino evocato l’ipotesi di emigrare piuttosto che indossare la divisa.

Le tensioni hanno generato episodi di violenza, come quello della scorsa settimana, quando una folla di Haredi ha circondato e aggredito una squadra della Polizia Militare intenta ad arrestare un sospetto renitente. L’intervento di un’unità speciale di Frontiera è stato necessario per estrarre gli agenti. È proprio dopo questi fatti che è nato il sistema delle Black Alert, pensato per diffondere in tempo reale l’allarme e richiamare i manifestanti sul luogo di ogni tentativo di arresto. In poche settimane, il loro suono è diventato sinonimo di scontro imminente.

Ma al di là delle piazze, un’altra parte del Paese guarda alla riforma come a un passaggio inevitabile. In un periodo in cui l’esercito sostiene un peso enorme in termini di personale, l’idea di un obbligo di leva valido per tutti assume un significato che va oltre la logica militare: è una questione di equità, coesione nazionale e giustizia sociale. Molti israeliani laici non accettano più che un gruppo in rapida crescita demografica — destinato, secondo le proiezioni, a rappresentare una quota decisiva della popolazione futura — resti esentato dai doveri comuni mentre il Paese fronteggia minacce senza precedenti.

Gli oppositori avvertono però che imporre la leva agli ultra-ortodossi potrebbe spaccare in modo irreparabile la società, alimentare tensioni tra religiosi e laici e mettere a rischio la stabilità del governo. I sostenitori ribattono che non farlo significa rinunciare al principio stesso di uguaglianza civica e lasciare che la frattura diventi ancora più profonda. Dietro lo scontro parlamentare, si intravede così una domanda cruciale: può Israele continuare a essere uno Stato che coniuga identità religiosa e doveri repubblicani senza che uno dei due elementi ne soffochi l’altro?

La posta in gioco è altissima. Se la legge verrà approvata, non si tratterà soltanto di riformare la leva: cambierà radicalmente la relazione tra la comunità Haredi e il resto della società israeliana, ridefinendo il patto che lega cittadini, esercito e Stato. E quelle Black Alert, oggi segnali di protesta, potrebbero diventare la testimonianza di un passaggio storico destinato a influenzare per decenni il volto di Israele.