«La giustizia non negozia, non si unisce al dialogo. Il calendario per la giustizia è diverso dal calendario politico». Parole di fuoco quelle pronunciate dai magistrati che hanno condannato a morte l’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo ( RDC), Joseph Kabila. Si è così dato corso alle richieste dei pubblici ministeri che venerdì scorso avevano richiesto la pena capitale per colui che, a tutti gli effetti, rappresenta uno degli uomini politici più controversi ma nello stesso tempo influenti dell'intero continente africano.

Dal 2001 il 54enne ha infatti guidato la Repubblica Democratica del Congo per 18 anni, dopo essere succeduto al padre Laurent, quando aveva solo 29 anni, perché ucciso a colpi di arma da fuoco. La sua parabola presidenziale si è poi interrotta nel 2019 allorché ha consegnato il potere al presidente Félix Tshisekedi a seguito di un'elezione contestata e mai riconosciuta dal diretto interessato.

Le accuse contro Kabila sono molto pesanti, il generale Lucien Rene Likulia, revisore generale dell'esercito congolese, ha chiesto ai giudici la condanna a morte per tradimento e crimini di guerra, tra cui omicidio, tortura e organizzazione di un'insurrezione. L’ex presidente è stato processato in sua assenza già a luglio per il suo presunto sostegno ai ribelli dell’M23 sostenuti dal Ruanda, che quest'anno si sono impadroniti di vaste aree della RDC orientale ricca di minerali.

In realtà negli ultimi due anni Kabila ha lasciato il Congo spostandosi in diversi paesi ma risiedendo principalmente in Sudafrica.

Ha annunciato però che sarebbe tornato nella RDC a maggio di quest’anno, cosa effettivamente avvenuta, per favorire la pace nell'est devastato dalla guerra, incontrando i leader religiosi locali alla presenza del portavoce dell'M23 Lawrence Kanyuka.

Il governo congolese si è rapidamente mosso per mettere al bando il suo partito politico e ha sequestrato i suoi beni. Inoltre dal 2024 è stata cambiata la legge che concedeva l'immunità ai senatori a vita aprendo la strada alla condanna morte.

A maggio dunque il senato della RDC ha votato per revocare la sua prerogativa per quanto riguarda i procedimenti giudiziari.

Kabila ha denunciato il processo, definendo i tribunali uno strumento di oppressione. Ma anche l’ONU ha indicato prove schiaccianti contro l'ex presidente, e diversi paesi occidentali hanno accusato il vicino Ruanda di sostenere l’M23 inviando migliaia di suoi soldati nella Repubblica Democratica del Congo.

Ma Kigali ha negato le accuse, affermando che sta agendo solo per impedire che il conflitto si riversi sul suo territorio. L'attuale situazione e solo l'ultimo capitolo di una guerra civile violentissima che va avanti da più di tre decenni, la RDC orientale è stata devastata dal conflitto tra vari gruppi armati impegnati a controllare una regione come quella del Kivu con un sottosuolo ricco di risorse utili soprattutto a costruire componenti per i telefoni cellulari.

Facile immaginare il valore economico di questa guerra, mai cessata ( in realtà anche ora nonostante l'accordo di pace) visto che i disordini armati si sono di nuovo intensificati sorattutto dopo la rinascita dell'M23 nel 2021.

Che Kabila però conservi ancora un carisma e un sostegno interno e fuori discussione. Almeno a giudicare dalle reazioni registrate in Congo dopo che è stata pronunciata la sentenza. Emmanuel Ramazani Shadary, segretario permanente dell'ex partito presidenziale congolese ( PPRD), ha descritto il processo come una manovra politica: «Dal 25 luglio 2025 ho annunciato che si tratta di un processo fasullo.

È una decisione politica alla quale è stata data una parvenza giudiziaria». Ha aggiunto, quindi, che questa decisione ha solo rafforzato Joseph Kabila e ha invitato i quadri e gli attivisti del PPRD a rimanere sereni.

Moïse Katumbi, oppositore congolese, ha denunciato, attraverso il suo partito Insieme per la Repubblica, una «cinica manovra politica volta a mettere a tacere un attore importante e seminare il terrore».

Un navigato protagonista della scena politica della RDC come Dieudonné Bolengetenge ha espresso i suoi timori riguardo all'uso della giustizia come arma di repressione, che potrebbe radicalizzare gli attori politici e portare al caos. Ha invitato i partner internazionali a respingere questa «parodia della giustizia e a favorire il dialogo».