Il 3 novembre si sono svolte le elezioni per la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America. Dopo oltre 24 ore non si è ancora certi su chi sarà il vincitore. Al momento lo sfidante democratico Biden sopravanza il presidente uscente Trump di 264 voti elettorali a 214. I soli 6 voti del Nevada potrebbero determinare il cambio dell’inquilino al 1600 della Pennsylvania Avenue. Gli avvocati di Trump chiederanno il riconteggio ( pratica consentita dalla legge e più volte utilizzata nel passato cfr. elezioni 2000) dei voti del Winsconsin e probabilmente di qualche altro stato dove il vantaggio democratico è stato esiguo.

Dall’incertezza di questo momento due dati emergono chiari ed evidenti: 1) la stampa “mainstream” ed i sondaggisti di tutto il mondo hanno preso un’altra cantonata come nel 2016; 2) la “marea blu”, che doveva sommergere Trump, dimostrando come fosse stato un incidente di percorso nella politica americana, non vi è stata, anzi.

L’errore compiuto dai sondaggisti nel 2016 poteva anche avere un motivo: Trump era un outsider, che mai si era speso in politica e che affrontava la “corazzata” Clinton. Era evidente che vi erano dei pregiudizi di carattere culturale, ma un buon margine di errore era possibile. Questa volta è tutto meno comprensibile. Trump, per quanto eternamente fuori schema, è il presidente in carica. Quattro anni di quotidiana frequentazione avrebbero dovuto essere sufficienti per capire l’influenza che il “popolo” americano poteva avere sulle politiche della Casa Bianca e viceversa. Trump era stato in grado di mantenere le sue promesse o no? E se si, in quale misura? Nulla di tutto questo. La stampa americana, che per decenni ha insegnato al mondo il modo di fare giornalismo in modo critico, magari, ma – apparentemente – imparziale, ha rinunciato al suo ruolo di essere un termometro “super partes” per diventare ferocemente “pars”. Il giornalista non ha provato neppure a fare il suo antico mestiere, consumando taccuini e suola di scarpe, cercando di capire dove andava il Paese, ma si è trasformato in un “maître à penser” che dispensa le sue verità come atti di fede. Eppure non è così difficile capire le diverse anime profonde dell’America. Basta un giro nella metropolitana di una grande città e sbirciare come in pochi decenni sono cambiati i quartieri o uscire di poche decine di chilometri dai ricchi e progressisti centri cittadini per trovarsi immersi nell’immensa provincia americana. Meglio concionare, spesso con colleghi stranieri, delle magnifiche sorti e progressive della “nuova America” negli ovattati salotti del n. 529 14th Street dei Washington, sede del National Press Club. In questa lussuosa e sofisticata cornice la vulgata sull’elettore trumpiano è sempre la medesima: provinciale, “bianco”, a basso reddito, di modestissima formazione e di scarse letture ecc. L’eterno “redneck”. Dall’altra parte del fronte l’elettore democratico o appartiene al variopinto universo delle minoranze ( etniche, religiose, di genere) o è l’uomo informato, “consapevole”, culturalmente avanzato, insomma “alla moda”. Se si dovesse rintracciare l’ideal- tipo di questo eterogeneo e conflittuale bacino elettorale lo potremmo trovare tra il pubblico ed i personaggi all’interno dei primi film di Spike Lee o della serie TV “Sex and the city”. Universo impossibile da conciliare, se non nella narrazione “glam” di Oprah Winfrey.

Verrebbe quasi da pensare che questi abbagli nei sondaggi, non siano tali, ma sofisticati meccanismi di disinformazione, tesi a sfiduciare un elettore repubblicano moderato per portarlo a votare per il candidato democratico: “tanto Trump ha già perso in partenza”.

E’ un fatto che questa vulgata non è riuscita a fare i proseliti sperati. Per questo, anche in caso di vittoria democratica la marea blu non vi è stata e di questo Biden, se sarà presidente, dovrà tenerne conto nelle sue scelte politiche.

Il dilemma di fronte al quale si è posto l’elettore “apartitico” – sempre quando a concorrere è un presidente in carica - non è stata tanto quella di pesare il competitor, ma di valutare la credibilità del presidente uscente.

Biden è quello che è: un signore anziano che si fa portatore, non sempre convinto, di istanze fra loro conflittuali, accompagnato e sostenuto nei tour elettorali da Obama o dal mondo patinato dello “show biz”, alle volte con risultanze patetiche, come quando sembrava essere lui la “spalla” di Lady Gaga, come fosse stato il vecchio crooner Tony Bennett.

Trump appare più solido e prevedibile, nella sua eterna imprevedibilità. Si conosce la sua proposta ed il suo modello comportamentale. Se ti piace lo voti, se no, no!

Trump – da immobiliarista, quindi venditore senza scrupoli – ha cercato di identificare con maggiore precisione il suo elettore di riferimento senza, per scelta e necessità, cercare di “imbarcare” tutto e tutti per non annacquare la sua visione politica. Sempre cercando di fare ricorso ad immagini cinematografiche parrebbe averlo trovato nel personaggio ideal- tipico di “Walt” Kowalski, magnificamente immortalato da Clint Eastwood in “Gran Torino”. Quel vecchio irascibile e solitario, ormai straniero ed estraneo al proprio mondo, può plasticamente immedesimarsi nella figura solitaria del presidente uscente, anche senza necessariamente condividerne tutte le politiche.

Se il vulnus di queste elezioni fosse solo la scelta tra Biden e Trump poco importante sarebbe l’esito. Il vero problema è che mai come oggi gli Sati Uniti attraversano una crisi di identità che Trump può aver cavalcato, ma non ha creato. Se è vero, come scrive Michael Walzer, che gli Stati Uniti sono una “associazione di cittadini” che sono “americani solo per il fatto di essersi uniti insieme”, legati, semmai da un insieme di valori universalmente condivisi. Questi valori comuni sono ampiamente compromessi nello sforzo che il paese ha compiuto nel tenere legati idee, aspirazioni, nazionalità che hanno poco a spartire l’una con l’altra.

Nel 1997 uscì una film per la televisione un film dal titolo “La seconda guerra civile americana” una satira della società e del sistema politico statunitense di fronte al problema dell'immigrazione e dell'integrazione delle minoranze etniche. Un racconto grottesco e definitivo. Speriamo resti un film.