Viktor Orbán ha ammesso la battuta d’arresto elettorale di domenica, ma ci tiene a sottolineare che dal risultato degli oltre undicimila seggi elettorali – hanno votato otto milioni di ungheresi per eleggere sindaci e consigli comunali in circa tremila località, con un’affluenza alle urne più alta della media, oltre il 50 percento – la maggioranza rimane al suo partito, Fidesz.

Certo, Orbán ha perso Budapest – dove ha vinto Gergely Karacsony, candidato di una coalizione dove c’erano i centristi di Momentum, i Socialisti, gli ecologisti e che ha potuto contare sulla desistenza dell'estrema destra di Jobbik: un’idea, questa della coalizione, che era stata avanzata anni fa dalla filosofa Agnes Heller ma che al tempo aveva suscitato resistenza.

E la coalizione ( Összefogás) ha vinto in dieci delle ventitré grandi città del Paese ( Pecs, Szeged e Miskol, tra queste, mentre Debrecen, che è la seconda, per popolazione, dopo Budapest, è andata a Fidesz). Ma Orbán ha tenuto nei centri rurali, dove il controllo dei voti è più stringente e dove il timore, e spesso la paura, di esporsi, è molto forte. Karacsony aveva paragonato la corsa di Budapest a quella di Istanbul a marzo, quando il candidato del presidente turco Recep Tayyip Erdogan fu sconfitto dallo sfidante dell'opposizione: «Istanbul ha votato contro un potere illiberale aggressivo per molti tratti simile al regime di Orbán».

Ha avuto ragione. La partita in Ungheria è ora aperta, fino alle elezioni del 2022: Orbán proverà a stringere i cordoni della borsa verso le città che gli hanno voltato le spalle, Karacsony è già stato a Bruxelles a parlare con il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, per discutere l’accesso diretto delle autorità municipali ai fondi europei.

Vale la pena però riflettere su questa differenza di voto fra città e piccoli centri, tra città e campagna che si ripropone a ogni elezione – anche alle politiche in Polonia dove si votava quasi in contemporanea e ha stravinto il partito Diritto e Giustizia di Kaczynski. Chi non ricorda il voto sulla Brexit, con Londra fieramente per il Remain e le contee inglesi, che poi sono risultate determinanti, per il Leave?

Nel 2016, alle elezioni presidenziali americane Hillary Clinton raccolse quasi tre milioni di voti in più di Trump: 65.844.594, ovvero il 48,2 percento, contro 62.979.616 voti, il 46,1 percento. Prese però solo 232 grandi elettori ( ogni Stato ha un numero di grandi elettori, e sono loro che eleggono il presidente) contro i 306 di Trump – uno squilibrio tra voto popolare e voto indiretto più che evidente: la California, la settima potenza industriale al mondo e uno degli Stati più popolosi, ha un numero sproporzionatamente basso di grandi elettori.

Le quasi 500 contee che votarono Hillary Clinton nel 2016 producono il 64 percento del prodotto interno lordo del Paese, contro il 36 percento delle quasi 2600 contee di Trump ( contee spesso poco popolose); il 78 percento delle fasce più povere non ha votato. Decisivo è stato il successo in Pennsylvania, Ohio, Michigan e Wisconsin, considerate quattro roccaforti del Partito Democratico e che, insieme, costituiscono la cosiddetta Rust Belt, la “cintura della ruggine”, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense e poi epicentro di una profonda crisi industriale.

I repubblicani non vincevano in Pennsylvania dal 1988 e in Wisconsin dal 1984. Negli “urban cores”, nei grandi agglomerati urbani, i democratici hanno vinto con oltre l’ 85 percento; poi è stata una valanga repubblicana: suburbs e medium- sized city, 75 percento; small city, 85 percento; very small city, oltre l’ 85 percento; rural, oltre il 90 percento.

Il voto in North Carolina rappresenta uno specchio fedele di quanto accaduto a livello generale: ha vinto a sorpresa Trump; il candidato repubblicano ha sconfitto nettamente la sua contendente nel voto rurale, con punte dell’ 80 percento, mentre la rappresentante dei democratici ha vinto nelle aree urbane, prendendo, però, tra il 5 e il 7 percento in meno rispetto a Obama quattro anni prima ( fonte: Washington Post). È questa la spaccatura dentro gli Stati uniti, quella tra campagna ( tra aree dismesse, abbandonate, arrugginite) e città.

Durante la campagna per le mid- term di novembre 2018, Trump in un rally a Houston in Texas in appoggio alla candidatura di Ted Cruz, facendosi campione della lotta “alle città globali”, ha strillato: « You know what I am? I’m a nationalist ». E mentre la folla acclamava, ha continuato: «I democratici radicali vogliono portare gli orologi indietro. Ripristinare il comando dei globalisti corrotti e assetati di potere. You know what a globalist is? You know what a globalist is? Sai cos’è un globalista? Un globalista è una persona che vuole che il globo stia bene, e non si preoccupa più di tanto del nostro paese. And you know what, we can’t have that. E sai una cosa? Non possiamo permettercelo.

I’m a nationalist. Nationalist. Nothing wrong. Use that word. Use that word ».

Perché la destra, oggi, interpreta meglio questo tempo? Come è potuto accadere che la contraddizione antagonista liberazione nazionale/ imperialismo, quella della lotta al colonialismo – del panarabismo, dei fronti di liberazione nazionale, degli eserciti di liberazione nazionale, della guerriglia antimperialista, dall’Egitto all’Algeria, dal Vietnam all’Africa, dall’America latina alla Cambogia – si sia cristallizzata nella contraddizione nazionalismo/ globalismo?

Ernesto Arajuo, lunga carriera diplomatica alle spalle, ora ministro degli Esteri del nuovo presidente del Brasile Jair Bolsonaro, può scrivere così nel suo blog Metapolítica 17 – contra o globalismo: « Quiero ayudar a Brasil y al mundo a librarse de la ideología globalista. Globalismo es la globalización económica que pasó a ser comandada por el marxismo cultural ».

Ecco, la relazione fatale: globalismo e marxismo, che è il sottosopra della relazione tra internazionalismo e marxismo. Araújo descrive il “globalismo” come un “sistema antihumano y anticristiano” e ovviamente odia « el tercermundismo automático, la adhesión a las discusiones abortistas y anticristianas en los foros multilaterales, y la destrucción de la identidad de los pueblos mediante la inmigración ilimitada ».

Infine, è certo che «la fe en Cristo significa luchar contra el globalismo, cuyo objetivo final es romper la conexión entre Dios y el hombre, para convertir al hombre en esclavo y a Dios en irrelevante ». Anche la teologia della liberazione è rovesciata qui come un calzino. Cristo – l’irriso rex iudaeorum, com’è scritto sulla croce – sembra farsi sovranista, ma non solo del regno dei cieli, che in fondo gli appartiene, ma di ogni maledetta nazione.

Classificazione di Urban Cores, Suburbs & Exurbs: Gli ultimi dati, per il 2011 ( dal 2009- 2013 American Community Survey) indicano che il 15% della popolazione vive nei nuclei urbani delle 52 grandi aree metropolitane ( quelle con più di 1 milione di abitanti). Il nucleo urbano è definito dallo sviluppo urbano e da stili di vita simili a quelli prevalenti prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale.

Molte città centrali, come Los Angeles, Seattle, Portland, Phoenix, Kansas City, Indianapolis e altre, hanno vaste aree di sviluppo suburbano dal dopoguerra, con alloggi separati e un quasi monopolio delle automobili per la mobilità. Complessivamente, le città centrali sono per il 42 percento nucleo urbano e per il 58 percento suburbano e extraurbano. Il termine ' città principali' è stato coniato dall'Ufficio di gestione e bilancio prima del censimento del 2000 per riconoscere che le città americane erano diventate policentriche nei loro modelli di occupazione.

Tutte le “città centrali” precedentemente designate sono le città principali, ma molti altri comuni sono stati aggiunti per il loro numero di posti di lavoro in luoghi di grandi dimensioni, principalmente suburbani. Gli esempi includono Aurora nell'area di Denver, Arlington nell'area di Dallas- Fort Worth, Mesa nell'area di Phoenix, White Plains nell'area di New York e Fountain Valley nell'area di Los Angeles. Le città principali oltre alle città centrali hanno una popolazione che è l' 8 percento di nucleo urbano e il 92 percento di periferia e extraurbano.

Dopo la Seconda guerra mondiale, la costruzione di case suburbane si espanse e la proprietà dell'automobile divenne quasi universale. La proprietà delle automobili è cresciuta così tanto che la percentuale di lavoratori a basso reddito che usano le auto per andare a lavoro è quasi uguale alla popolazione complessiva degli stessi. Nelle 51 grandi aree metropolitane della nazione ( più di 1.000.000 di abitanti), il 76,3 percento degli occupati a basso reddito utilizza l'auto per andare al lavoro, tre volte quella di tutte le altre modalità combinate ( trasporto, a piedi, altro).

Effettivamente, questo dato è inferiore all' 83,3 percento di tutti gli occupati che usano le auto per il viaggio di lavoro, ma molto più di quanto ci si aspetterebbe, specialmente tra coloro che credono che il trasporto sia il principale mezzo di mobilità per i cittadini a basso reddito.

Complessivamente, 8 volte il numero di cittadini a basso reddito si spostano in auto piuttosto che per trasporto. Sono definiti cittadini a reddito più basso gli occupati che guadagnano meno di 15,000 dollari all'anno, ovvero circa la metà del guadagno medio per dipendente che è di 29,701 dollari l’anno. Forse la cosa più sorprendente è il fatto che solo il 9,6 percento dei cittadini a basso reddito utilizza il trasporto per andare al lavoro. Questo dato non è molto più alto del 7,9 percento di tutti i lavoratori nelle aree metropolitane che usano il trasporto.

La diagonale delle basse densità è una rappresentazione semplificata dei territori meno popolati rispetto alla media francese, formando una banda che attraversa il paese da nord- est a sud- ovest. La preoccupazione per la Francia ' vuota' risale alla fine del XIX secolo, e è rimasta forte, anche dopo la fine dell'esodo rurale.

Questa diagonale collega una serie di territori, dalla foresta delle Ardenne alle Landes della Guascogna – attraversando la Champagne, il Gâtinais, la Puisaye, il Sancerrois, il Berry, la Sologne, il Bourbonnais, la Marche, le Combrailles, il Limousin, il Périgord e il Quercy. Per alcuni di questi spazi, la bassa densità non è incompatibile con una certa centralità: le aziende della Champagne sono fortemente collegate all'Europa e al mondo attraverso la commercializzazione di una rinomata produzione agricola. La diagonale include agglomerati non trascurabili come Reims o Limoges, che hanno servizi di alto livello come un'università. Tuttavia, alcuni dei territori sopra menzionati sono in dismissione.

Condito in tutte le salse per anni, il concetto multiuso di “Francia periferica” è servito a molti media come prima chiave di lettura del movimento dei gilet gialli. Niente però di più falso: nei bacini della protesta troviamo allo stesso tempo luoghi di deindustrializzazione e crocevia del mondo suburbano modellati dall'influenza delle metropoli. Da lì arrivano attivisti eterogenei, che si ritrovano più d'accordo su una certa idea di giustizia fiscale che su un definito radicamento territoriale.

C'è, ovviamente, un fattore geografico per giustificare l'idea di un'opposizione tra metropoli privilegiate e Francia periferica: quello della distanza e del costo crescente del carburante man mano che ci si allontana dai centri di agglomerazione. Tuttavia, diverse analisi hanno dimostrato che la mobilitazione dei gilet gialli non è in realtà proporzionale alla distanza dai centri delle grandi città. Al contrario, è strettamente legata alle metropoli: i luoghi della mobilitazione sono, quasi tutti, inscritti nelle “corone periurbane”, questi territori rurali che sono fuori dalle aree edificate, ma sotto la dipendenza immediata delle città per il lavoro e per i servizi di intermediazione.

Non ci sono quasi punti di mobilitazione in Borgogna, nel Poitou o nel Massiccio Centrale, dalla Haute- Loire a Tarn e in Corrèze. Non sono i più poveri che si sono mobilitati: per essere in grado di mobilitarsi sulle questioni del carburante, è necessario essere motorizzati e avere un motivo per lo spostamento, cioè in generale un lavoro. La Francia più povera, va ricordato, è anzitutto intraurbana, e non è questa Francia che sembra esprimersi, la cui sofferenza è purtroppo ancora al di sotto della posta messa in gioco dai gilet gialli.

Al contrario, la Francia periurbana è quella che ha potuto optare per un alloggio fuori città e ha un lavoro: il reddito medio delle aree periurbane è, in generale, superiore alla media nazionale e i tassi di disoccupazione e i tassi di povertà sono i più bassi del paese. Al “vincolo” di periferia, si può aggiungere – con cautela – un’altra sovrarappresentazione geografica, se si confronta il numero dei posti di blocco con il peso demografico delle città: i piccoli centri industriali colpiti dalla deindustrializzazione. Anche questi hanno una propria corona periurbana; ma c'è anche un contesto sfavorevole di paura per l'occupazione, con redditi più modesti della media.

Si tratta di quelle città lasciate ai margini delle dinamiche metropolitane che generano inoltre, in media, più forti sentimenti di insoddisfazione per le condizioni di vita: non è il rurale né il cuore delle grandi città, ma piccoli centri che guardano con perplessità la riduzione dei servizi pubblici proprio mentre il loro sforzo fiscale dovrebbe rafforzarli.

La fragilità sociale di queste piccole città industriose si manifesta per la loro elevata mobilitazione nel Nord Est, nella bassa Senna o nella zona est di Parigi, ma anche da Fos- sur- Mer a La Ciotat, o nei vecchi poli industriali e del tessile di Roanne o Montluçon. È difficile andare oltre nell'interpretazione geografica del movimento dei gilet gialli. In effetti, non vi è alcun determinismo sui luoghi.

In una società che è diventata molto mobile, le disuguaglianze sono ovunque: «Gli stili di vita stanno confondendo le carte, ricomponendo categorie territoriali. I gilet gialli non sono rurali o peri- urbani, sono allo stesso tempo residenti peri- urbani, utenti o dipendenti dei servizi della città e degli ex abitanti o attuali consumatori delle metropoli», dice Daniel Béhar, professore d’Urbanismo all’università di Paris- Est. L'idea di “Francia periferica” sarebbe quindi uno specchio rassicurante di autoidentificazione binaria, di fronte a una società che non è più così.

In effetti, la grande ricchezza può essere rurale e remota: alcune località turistiche o villaggi gentrificati non rappresentano un problema per coloro che hanno i mezzi di trasporto. Lo spazio peri- urbano in sé è altamente segmentato socialmente, le “corone” di Parigi ovest o Lione ovest sono particolarmente benestanti, respingendo le categorie socio- professionali inferiori a confini più lontani, o verso est.

Infine, non tutte le piccole città sono in crisi, e alcune beneficiano, soprattutto nel sud- ovest del territorio, della “circolazione invisibile della ricchezza'” e dei contributi redistributivi dall'economia residenziale.

In Sulla contraddizione, il Grande Timoniere, Mao Tsetung, scrive: «Le contraddizioni economiche fra città e campagna, tanto nella società capitalistica quanto in Cina nelle regioni dominate dal Kuomintang sono estremamente antagonistiche». Che non abbia ancora ragione il compagno Mao?