Sorriso mite, blazer blu impeccabile, modi azzimati: José Antonio Kast ha costruito gran parte della sua ascesa politica su un’immagine levigata, rassicurante, costruita nel tempo. In televisione parla con voce calma, quasi ipnotica, e sembra sempre impeccabilmente pettinato. Ma sotto questa patina di buone maniere si muove uno dei politici più radicali della scena cilena: figlio di un ufficiale tedesco iscritto al partito nazista e fuggito in Cile dopo la Seconda guerra mondiale, ammiratore dichiarato del colonnello Augusto Pinochet, ultraliberale in economia e ultraconservatore sui diritti civili. Il profilo è chiarissimo. Salvo colpi di scena fra poco meno di un mese Kast sarà il prossimo presidente del Cile.

Al primo turno di domenica è arrivato secondo (24,46%), due punti dietro la candidata della sinistra (26,45%), la comunista Jeannette Jara, che però non ha più riserve di voti. Al contrario Kast può contare sugli elettori del populista Franco Parisi (18,5%), della destra nazionalista di Johannes Kaiser (13,9 %), e della conservatrice Evelyn Matthei (12,5%). Solalemte un miracolo potrebbe impedire l’approdo alla Moneda di un “nipotino” della dittatura.

Il Paese arriva al voto attraversato da ondate di insicurezza, segnato disuguaglianze nonostante abbia l’economia più ricca del Sudamerica, e dalla solita disillusione verso la politica. Kast intercetta, o forse alimenta la frustrazione collettiva con una linea semplice e collaudata: ordine e disciplina, mano pesante contro la criminalità e l’immigrazione e guerra ai «politici corrotti». Da giovane studente di diritto, Kast fu allievo di Jaime Guzmán, ideologo della dittatura e ispiratore della Costituzione del 1980 e ancora oggi rivendica quell’eredità “culturale”, arrivando a sostenere che, «messi da parte alcuni eccessi nel campo dei diritti umani», il regime avrebbe fatto più per lo sviluppo del Cile di molti governi democratici.

Un’affermazione che pesa come un macigno in una nazione che ha contato più di 30mila prigionieri politici e oltre 3.000 morti o desaparecidos. Nella sua biografia familiare, poi, quell’eredità diventa ancora più concreta: suo fratello Miguel Kast (José è l’ultimo di nove figli), economista vivino ai cosiddetti Chicago Boys, fu ministro del Lavoro tra il 1980 e il 1982 e presidente della Banca Centrale cilena in piena dittatura. Sul piano economico, Kast abbraccia come il fratello il modello ultra-liberista: deregulation, privatizzazioni, tagli drastici allo Stato. Promette di risparmiare 6 miliardi di dollari in diciotto mesi, evocando una miscela tra la “motosega” dell’argentino Milei e la fede cieca nella mano invisibile del mercato. Ma è sul terreno della sicurezza e della lotta all’immigrazione che si sente davvero a casa: muri e trincee alle frontiere, esercito nelle strade, espulsione di tutti i migranti irregolari - oltre 300mila persone, molti dei quali minori. Propone inoltre di posticipare l’età pensionabile, liberalizzare il porto d’armi e concedere il diritto di sparare ai ladri sulla falsariga del secondo emendamento americano, di vietare il diritto all’aborto in ogni circostanza abolendo la legge firmata dall’ex presidente Michelle Bachelet.

Il suo programma, in fondo, è un copia- incolla di quello di Donald Trump: frontiere murate, valori religiosi, guerra senza quartiere all’“élite progressista”. Ma a differenza del tycoon il retaggio politico di Kast è decisamente più sinistro. In un Paese che da oltre trent’anni cerca di chiudere le ferite inferte dal regime, il ritorno alla presidenza di un uomo che ne rivendica apertamente l’eredità sembra far tornare indietro la ruota del tempo.