A Hostages Square di Tel Aviv si respira un clima di festa e di unità nazionale, ci sono i parenti delle persone rapite da Hamas che tra poche ore torneranno in libertà, ci sono gli esponenti politici e ci sono soprattutto migliaia di persone comuni scese in piazza per celebrare la fine di una delle più sanguinose guerre israelo-palestinesi. Lo storico accordo di pace promosso da Donald Trump che per la prima volta ha visto dirigenti dello Stato ebraico e di Hamas sedersi attorno allo stesso tavolo, viene salutato da (quasi) tutto l'arco politico, anche dall'opposizione che ringrazia il presidente Usa e spera che nel Paese si apra un nuova fase, e cioè che i falchi vengano messi all’angolo.

È la speranza che accompagna queste ore di entusiasmo e sollievo, ma anche di trepidazione per ciò che accadrà dopo. L’accordo ha scosso gli equilibri interni alla coalizione di governo, e la domanda che si agita dietro la gioia di una piazza che spesso lo ha contestato è insistente: cosa succederà ora a Benjamin Netanyahu e alla sua maggioranza sempre più fragile?

Il premier, sotto processo per frode e corruzione, ora si trova davanti a un bivio e, forse, anche a una possibile via d’uscita. I ministri dell’ultradestra, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, che ieri hanno votato contro l’accordo, sono infatti i grandi sconfitti della partita, volevano che l’Idf rimanesse in pianta stabile nella Striscia nella lunare idea di una riconquista di Gaza e volevano annettere di imperio tutta la Cisgiordania fomentando il movimento dei coloni; il piano di pace ha però smontato gli istinti famelici e ridimensionato il peso dei sionisti religiosi sull’esecutivo.

«Questa è una resa inaccettabile», ha commentato Smotrich, contestando lo scambio di prigionieri che avverrà nei prossimi giorni (verranno liberati 2000 palestinesi ma tra loro non c’è il leader di Fatah Marwan Barghouti in carcere da 23 anni): «C’è un’immensa paura delle conseguenze dello svuotamento delle prigioni e del rilascio della prossima generazione di leader terroristi che faranno tutto il possibile per continuare a versare fiumi di sangue ebraico».

I due principali leader di opposizione, Yair Lapid e Benny Gantz, hanno invitato chiaramente il premier a liberarsi degli estremisti per costruire una maggioranza più ampia e pragmatica. Perfino figure storiche della destra, come Avigdor Liberman e Naftali Bennett, hanno accolto con favore la prospettiva di un cambiamento, chiedendo un governo di unità che possa traghettare Israele fuori dalla crisi istituzionale e morale degli ultimi anni.

L’idea di un Netanyahu centrista, costretto dalle circostanze ad aprire alle formazioni moderate, non appare più utopica come soltanto qualche settimana fa. Bibi ha già avviato contatti informali con alcuni ex alleati per sondare la disponibilità a entrare in un governo di transizione, in attesa di nuove elezioni che dovrebbero svolgersi nell’autunno del 2026 anche se l’ipotesi di un voto anticipato a marzo è più che concreta.

Sul piano giudiziario, le inchieste pendenti su Netanyahu — accusato di aver favorito grandi gruppi mediatici in cambio di copertura favorevole e di aver accettato doni da imprenditori — restano una minaccia costante.

Ma l’attuale clima di riconciliazione nazionale potrebbe offrirgli una tregua politica, o quantomeno spostare l’attenzione dall’aula di tribunale ai negoziati per la stabilità. Una tregua fragile, che lo stesso premier cercherà di consolidare presentandosi come “l’uomo della pace dopo la guerra” anche se i conti con la giustizia non potranno essere rinviati in eterno.

Sul fronte economico e sociale, l’accordo ha generato un’ondata di ottimismo che i mercati e i media non registravano da mesi: ieri lo shekel (la valuta israeliana) ha chiuso in netto rialzo segnando il record dell’ultimo anno.

Ma la sfida vera e propria comincerà appena svaniranno gli echi della festa di Hostages Square: ricostruire Gaza, riavviare i colloqui diplomatici con la controparte palestinese, ridare fiducia a un Paese polarizzato e stanco.

I prossimi mesi diranno se questa giornata di speranza sarà l’alba di una nuova stagione o soltanto una pausa nella lunga notte della politica israeliana. Per ora, a Tel Aviv, tra bandiere e canti, prevale l’ottimismo della volontà ed è comprensibile: per la prima volta dopo anni Israele può immaginare se stesso non più solo come una fortezza assediata o una nazione guerriera, ma come una democrazia capace di cambiare direzione.