Giuseppe Conte - sì, proprio lui, l’ex presidente del Consiglio che da presidente soltanto del Movimento 5 Stelle aspira senza alcuna reticenza a tornare a Palazzo Chigi, convinto al pari di Marco Travaglio di essere una mezza reincarnazione di Camillo Benso conte di Cavour, al minuscolo- si è messo a rovesciare acqua sul fuoco dell’ottimismo e dell’entusiasmo della segretaria del Pd Elly Schlein. Che è sicura di giocare nella partita in corso delle elezioni regionali la prova dell’alternativa nazionale al governo di centrodestra di Giorgia Meloni.

Pur gonfio, anche lui, di orgoglio per avere strappato al Nazareno candidature pentastellate al vertice della Campania e della Calabria, in fila per le urne con Valle d’Aosta, Veneto, Marche e Toscana, Conte ha avvertito dalle colonne del Corriere della Sera la Schlein e amici che «stare insieme non basta». «L’unità - ha spiegato l’ex premier a proposito di quella delle opposizioni testardamente perseguita dalla Schlein, e raggiunta appunto per queste regionali d’autunno, al netto delle resistenze di Carlo Calenda - è la migliore condizione per vincere, però non può essere una semplice invocazione», come deve essergli apparsa quella della segretaria piddina.

«È un percorso non facile, paziente, di confronto - ha avvertito Conte- tra diversi sulle cose da fare e i valori da difendere», a livello nazionale con l’inconveniente di dovere assumere anche una linea di politica estera, non compresa - o non ancora, neppure dopo la riforma del titolo quinto della Costituzione adottata a suo tempo dalla sinistra- nelle competenze regionali. Una politica estera che le opposizioni accusano la maggioranza di non avere, a parte un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti di Trump, per le contraddizioni che si avvertono fra i partiti al governo, specie fra la Lega di Matteo Salvini, e del vice segretario e generale Roberto Vannacci, e gli altri partiti della coalizione. Ma che neppure le opposizioni hanno. Anzi, l’hanno ancora

di meno perché le divisioni attraversano anche il maggiore dei partiti aspiranti all’alternativa: il Pd di cui uno dei fondatori - Luigi Zanda - ha chiesto prima un congresso, poi un’assemblea tematica, infine - ma sempre inutilmente- una riunione apposita della direzione per discuterne, possibilmente senza sottintesi, senza reticenze o ambiguità verbali e scritte in un documento conclusivo. «Stando semplicemente uniti si vince ma non si governa», ha ammonito Conte con incontestabile realismo, e anche un po’ di esperienza personale non proprio cavouriana.

Come quella di qualche suo predecessore più dichiaratamente e orgogliosamente di sinistra tipo Romano Prodi. «Dobbiamo assicurare stabilità- ha detto Conte immaginandosi forse capotavola in un incontro conviviale di progressisti indipendenti, anche l’uno dall’altro, ma accomunati da ambizioni governative- con un progetto serio, evitando un governo che si sfaldi poco dopo le elezioni, come accadde con l’Unione di Prodi» nel 2008.

Ma in fondo come era già accaduto dieci anni prima con l’Ulivo, sempre di Prodi. Anche se in quell’altra occasione erano state evitate le elezioni anticipate per il soccorso fornito dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga ad un Massimo D’Alema deciso a salvare la legislatura. E, caduto anche lui, a farla arrivare all’epilogo ordinario col secondo governo di Giuliano Amato, dopo il primo fattogli formare nel 1992 da Bettino Craxi. Archeologia, o quasi.