È di questi giorni la notizia ripresa anche sulle pagine de Il Dubbio di una giovane donna, di origini arabe, che ha raccontato, come un suo sogno che si avvera, quello di diventare la prima “magistrata velata” in un’aula di giustizia. E’ chiaro che si deve fin da subito sgombrare il campo dall’ovvietà del diritto di ciascuno e di ciascuna di scegliere come vestirsi e se indossare o meno simboli di carattere politico o anche religioso.

Il punto è un altro. Diverso è se ad indossare un simbolo politico o religioso sia un magistrato: non un cittadino qualunque quindi, ma un alto funzionario, che rappresenta lo Stato nell’esercizio di un potere che deve essere indipendente e laico perché diretto a decidere della libertà e dei diritti fondamentali di un individuo senza pre- giudizio. E’ l’assenza di simboli religiosi che assicura l’immagine di imparzialità del magistrato nell’esercizio delle sue funzioni. Non è un caso che in Italia i magistrati non possano per esempio avere alcuna tessera di partito politico.

Il magistrato deve infatti apparire oltre che essere imparziale: su questo non dovrebbero esserci dubbi – salvo il condizionale d’obbligo, viste le costanti dimenticanze sul tema –, considerato che la laicità dello Stato è effettiva solo laddove sia tangibile nell’esercizio dei suoi poteri. Laico è infatti quell’ordinamento che non punisce la violazione di norme religiose o ideologiche, come invece accade nello stato teocratico in cui queste entrano a farne parte quasi per intero fino ad essere praticamente sovrapposte. E’ per questo che la religione è un diritto, una libertà, ma non può diventare un alibi. Quella del magistrato libero da simboli e appartenenze ideologiche è una neutralità manifesta, che tutela chiunque gli si presenti innanzi per essere giudicato, come indagato, processato o prigionero. E’ per questo che non solo il tesseramento, ma persino una intensa e costante partecipazione alle attività di un partito politico, possono essere considerati motivo di rottura di quella imparzialità.

Ebbene, la domanda sorge allora spontanea: perché possiamo pretendere la compressione in capo all’individuo- magistrato del suo diritto di manifestare un pensiero politico a tutela della sua inderogabile immagine

di imparzialità, ma non dovremmo ugualmente pretenderla per il suo diritto di esercitare una religione? Forse anche questa è ideologia, o peggio è demagogia. Per dirla più semplicemente, perchè il diritto di religione dovrebbe avere un trattamento diverso, ovvero più favorevole, rispetto a quello di manifestazione del pensiero politico? La laicità del magistrato è la laicità della giustizia e oggi più che mai le democrazie liberali devono scegliere da che parte stare e cosi le istituzioni che le rappresentano.

Peraltro non si può nemmeno fare finta di niente visto che oggi ci sono giovani che vengono impiccati a due al giorno, se non seviziati o violentati, da un regime teocratico da cui vogliono essere semplicemente liberi. E’ cosi che accettare il velo, in un contesto istituzionale, significa anche non ricordarsi di come sia il simbolo di un regime, che non permette giusti processi e arresta, tortura e condanna a morte chi vi si sta opponendo nella rivoluzione iraniana: è tutto quello che non c’entra con la giustizia giusta. Indubbio è dunque, in un contesto storico come quello attuale, il peso della presenza di una “magistrata velata” in un’aula di giustizia del nostro Stato di diritto, che deve prendere una posizione di laicità proprio per riconoscere la libertà di chi in altra parte del mondo sacrifica la sua vita.

Sappiamo tutti che cosa sta accadendo in Iran, dove il velo è il simbolo di una teocrazia, che anziché garantire la libertà del singolo la sacrifica a favore del dogma: ecco perché il velo su un magistrato fa a pugni con l’apparire credibile nella sua alta funzione di libertà dal pre- giudizio. Almeno alle giovani donne e ai giovani uomini che ogni giorno dopo processi sommari vengono impiccati dal regime teocratico della repubblica islamica, dobbiamo una presa di posizione di laicita a partire da chi indossa la toga nell’esercizio del nostro potere giudiziario.