Il dibattito sull’impiego delle misure di coercizione nei confronti degli imputati e, in particolare, sull’uso delle manette durante i trasferimenti e le udienze tocca uno dei punti più delicati dello Stato di diritto contemporaneo: la concreta attuazione del principio di presunzione d’innocenza. Non si tratta di un dettaglio ma di una questione che investe la legittimazione stessa del sistema penale, il rapporto tra potere pubblico e dignità individuale e, in ultima analisi, la credibilità della giustizia agli occhi dei cittadini e delle istituzioni sovranazionali.

L’attenzione sollevata dalle istituzioni europee nei confronti dell’Italia, come sottolineato di recente anche da osservatori e commentatori di ogni forza politica, evidenzia uno scarto evidente tra l’impianto normativo – che già recepisce le garanzie poste dal diritto sovranazionale – e le prassi quotidiane degli apparati giudiziari e penitenziari. In altri termini, il problema non è tanto nella norma, quanto nella rappresentazione della giustizia: le immagini di imputati tradotti in aula ammanettati o sottoposti a coercizioni visibili rischiano di produrre nell’opinione pubblica un pregiudizio di colpevolezza, trasformando la misura cautelare da strumento di garanzia processuale a simbolo di stigma sociale.

Al centro della vicenda v’è la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza e le osservazioni rivolte all’Italia dal commissario alla Giustizia Michael McGrath, che evidenziano come la traduzione degli imputati in udienza in stato di detenzione – spesso ammanettati – possa costituire violazione delle garanzie difensive e dei diritti fondamentali.

Il nodo italiano appare chiaro: mentre altri ordinamenti tendono a ridurre al minimo l’impatto visivo delle misure cautelari, il nostro sistema lascia ampio margine a prassi che producono stigma e ledono la neutralità processuale. Le raccomandazioni dell’Unione europea non sono isolate: già nel 2018 la Corte Edu di Strasburgo ( caso Svinarenko e Slyadnev c. Russia) aveva condannato la pratica di esporre gli imputati in gabbie o con mezzi coercitivi sproporzionati, richiamando tutti gli Stati al rispetto della dignità. Cosa avviene altrove?

In Francia la normativa (Code de procédure pénale, artt. 803 e ss.) vieta esplicitamente di esporre l’imputato in manette o con altri strumenti di coercizione fisica, salvo in caso di necessità assoluta per ragioni di sicurezza o pericolo di fuga. Il Conseil constitutionnel ha più volte ribadito che la dignità della persona e la presunzione d’innocenza impongono riservatezza: per questo motivo, la diffusione di immagini di imputati ammanettati è strettamente limitata. I processi mediatici sono contrastati con severe sanzioni per chi pubblica foto non autorizzate.

La Germania applica il principio di proporzionalità in modo stringente. Le manette sono consentite soltanto durante il trasferimento se e solo se sussistono motivi specifici di pericolo, e devono essere rimosse appena l’imputato entra in aula.

La Bundesverfassungsgericht ha chiarito che l’uso delle coercizioni fisiche non può mai tradursi in un “marchio visibile” di colpevolezza. La scena processuale deve salvaguardare l’immagine neutra dell’imputato, evitando suggestioni negative nei confronti dei giudici popolari.

In Spagna, la Ley de Enjuiciamiento Criminal disciplina con precisione l’uso delle esposizioni pubbliche. Gli imputati vengono tradotti in aula generalmente senza manette, che vengono utilizzate solo durante il trasporto. Il Tribunal Constitucional ha affermato che “la sicurezza non può prevalere sulla dignità della persona”, imponendo al potere giudiziario un costante bilanciamento tra esigenze dell’ordine pubblico e tutela delle libertà.

Negli Stati Uniti, invece, la logica è spesso opposta. La cosiddetta perp walk – la camminata pubblica dell’arrestato tra i poliziotti, ammanettato e sotto gli obiettivi delle telecamere – è un rito mediatico, in particolare a New York, dove i procuratori l’hanno usata come strumento di pressione sociale e comunicativa. Negli anni, associazioni per i diritti civili ( come l’Aclu) hanno denunciato la spettacolarizzazione delle manette come una forma di “pena anticipata”.

Nel Regno Unito, l’imputato non deve mai comparire davanti alla giuria in manette o in divisa carceraria. Il Criminal Procedure and Investigations Act e le prassi consolidate garantiscono che le coercizioni siano invisibili al pubblico, salvo rischi eccezionali. Qui l’attenzione è posta sull’imparzialità della giuria: qualsiasi elemento che possa influenzarne la percezione è considerato una violazione del fair trial.

Il dibattito aperto da un articolo con cui Marco Travaglio, lo scorso 5 agosto, ha criticato le posizini della Commissione Ue sul tema, mette in luce una tensione di fondo: l’Italia rischia di restare un unicum in Europa per la persistenza di pratiche simboliche che trasformano le aule di giustizia in palcoscenici di colpevolezza anticipata. La questione non è meramente formale, si ripete: tocca la sostanza della civiltà giuridica.

Un autentico garantismo non si misura soltanto nelle leggi, ma nelle immagini quotidiane che il sistema offre di sé. Francia, Germania e Spagna ci ricordano che la dignità dell’imputato è parte integrante del processo equo; Stati Uniti e Regno Unito dimostrano che la dimensione comunicativa può incidere profondamente sull’equilibrio tra giustizia e opinione pubblica.

Per l’Italia, il tempo della riforma non è più rinviabile: la presunzione d’innocenza, per essere reale, deve essere visibile e tangibile in ogni circostanza.