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CESARE PARODI PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI
Probabilmente la prossima campagna referendaria sulla giustizia segnerà un irreversibile punto di svolta nell’assetto istituzionale e politico della Repubblica.
Perché questo non è un progetto di riforma costituzionale come gli altri, pur abortiti di Berlusconi e di Renzi, in cui si discuteva dell’organizzazione dello Stato, dell’allocazione del potere legislativo o amministrativo o del funzionamento delle sue articolazioni (Camere, Regioni, Cnel e via seguitando).
Allora si confrontavano opinioni, ideologie, visioni politiche contrapposte che, da un lato, segnalavano l’urgenza di modificare radicalmente, a esempio, il bicameralismo perfetto tra Senato e Camera, e dall’altro si appellavano all’enfasi della “Costituzione più bella del mondo” per sostenere che fosse insuscettibile di ogni pur minima manipolazione; polarità tutte politiche e ideologiche.
Allora né una delle Camere, né le Regioni, né il vituperato Cnel pensarono di mettere in piedi un comitato referendario per il “no”; lo scontro si svolse su un piano esclusivamente politico, senza che alcuna istituzione entrasse nell’agone della campagna per il voto popolare o mostrasse di essere parte del conflitto elettorale. Questa volta le cose non stanno così.
La presenza della magistratura associata (che praticamente rappresenta l’intero universo giudiziario togato) con un proprio comitato per il “no” - malgrado il tentativo lodevole di annacquarne la valenza politica con la designazione di un professore universitario di antico lignaggio forense - rende inevitabile il “corpo a corpo” costituzionale tra governo e magistratura.
Si badi bene: tra il Governo e non il Parlamento, perché la riforma – come è stato ben evidenziato da un politico di vaglia e provvisto di una certa conoscenza della questione – è stata predisposta dal Governo e il Parlamento, in ben quattro letture, non ha spostato nemmeno una virgola del testo originario. È coerente, quindi, il ministro Nordio a volersi porre come diretto contraddittore dell’Anm nel confronto mediatico e istituzionale, poiché è perfettamente consapevole della matrice e delle responsabilità politiche della riforma.
Insomma: non è che ora, dopo aver lanciato il sasso, pezzi della maggioranza che ha approvato il testo possono nascondere la mano, facendo finta che il voto popolare sarà neutro sulle sorti politiche del paese e che, se la riforma fosse bocciata, si andrebbe avanti scrollandosi di dosso la polvere lasciata dalle macerie di una battaglia senza precedenti.
Senza infingimenti, il testo della riforma appare destinato praticamente a essere relegato nel retrobottega del dibattito che accompagnerà al voto della prossima primavera e lo scontro sarà tutto incentrato sulle intenzioni e sulle ideologie dei protagonisti dell’agone referendario, con la magistratura tra questi un po’ dietro le quinte e un po’ in prima linea soprattutto nella platea mediatica di un paese che vota sempre meno e sempre più svogliatamente.
Il ring sarà, comunque, occupato anche dal corpaccione dolorante, ma sempre vitale della magistratura italiana che conta, lo si sa, al proprio interno di intelligenze culturali e istituzionali di alto profilo, con fatica comparabili con la media del ceto politico in auge (salvo qualche eccezione) e di vere e proprie star televisive e giornalistiche in grado – anche questo lo si sa bene – di polverizzare qualunque contraddittore.
Tra l’altro la campagna di reclutamento dell’Anm tra le toghe è in pieno svolgimento e la chiamata alle armi non ammette renitenti in un confronto in cui si afferma, palesemente e in molte occasioni, che si tratta di spuntare le unghie ai magistrati e di penalizzare la corporazione. Né giova alla politica riformatrice preannunciare altre misure e addirittura una modifica della responsabilità civile delle toghe perché questo, di fatto, sveglia dal torpore politico e partecipativo anche le frange dei giudici più critici verso molte posture del pubblico ministero e più cauti a esporsi nel dibattito politico.
Certo è da apprezzare che alcune componenti della magistratura associata tengano a dichiarare che il contributo del comitato per il 'no' appena costituito si muoverà esclusivamente in un orizzonte tecnico, senza tracimazioni antigovernative, al solo scopo di informare il corpo elettorale. Ma si tratta di un caveat inutile a questo punto: se la riforma ha assunto chiare stimmate punitive e ritorsive per un preteso straripamento del potere giudiziario – argomento, certo capace di mobilitare i bacini di consenso elettorale in vista del voto – non è che alla clava degli uni si risponderà dall’altra parte con sopite e soporifere minuziosità giuridiche.
E’ accaduto l’inevitabile; come capita agli apprendisti stregoni in fondo, non ci è subito resi conto che le pulsioni reattive della politica contro una certa magistratura dovevano passare attraverso una meno appariscente e dirompente operazione selettiva e chirurgica di riforma che portasse a compimento il progetto Cartabia e prefigurasse interventi sull’ordinamento giudiziario e, a esempio, sui poteri paranormativi del Csm nei cui interstizi trova spazio il tanto vituperato “correntismo”.
La percezione, alimentata con veemenza, di un palingenetico redde rationem che, addirittura, pretende di liberare i cittadini - magistrati dal giogo opprimente delle correnti - cui spontaneamente appartengono - privandoli del diritto di voto per comporre il Csm, ha comportato una radicalizzazione del confronto e, quindi, un inasprirsi dello scontro che assumerà probabilmente toni non proprio da netiquette anglosassone. Insomma: sarà molto, molto aspra la contesa.
Come non evocare, tra le fiamme che cominciano a innalzarsi, il titolo del famoso scritto di Hans Magnus Enzensberger (“Prospettive sulla guerra civile”, Einaudi, 1994) che sembra attagliarsi senza troppo sforzo a una lotta dura tra poteri dello Stato che la Costituzione vigente non aveva neppure immaginato, fuori dal caso di un conflitto di attribuzioni innanzi alla Consulta. Di come possa finire, c’è tempo per parlarne.


