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LaPresse
Giunge a termine il percorso parlamentare per la modifica dell’art. 102 Cost., che prevede l’introduzione della separazione delle carriere dei magistrati, nella distinzione formale tra giudicanti e requirenti. Una riforma attesa trentasei anni: per ogni ordinamento arriva, prima o poi, il momento in cui deve rivolgere lo sguardo verso se stesso, nella continua evoluzione come soggetto vivente, necessaria se non vuole trasformarsi in un corpo asfittico.
Per la giustizia italiana oggi quel momento è giunto, in attesa dell’esito del referendum confermativo della riforma. La politica attuale, sempre più immersa in un presente infinito, dovrà essere in grado di interpretare il prossimo passaggio per il suo effettivo significato, perché il quesito referendario sia compreso nel suo autentico valore, oltre ogni contrapposizione partitica.
Terminate le contrapposizioni parlamentari, il voto referendario non dovrà essere interpretato come un tema divisivo, di destra o di sinistra, ma per ciò che effettivamente è: una questione di forma dello Stato, dello Stato di diritto, la cui qualità si misura nella distanza che sa porre tra il potere che accusa e quello che giudica.
L’attuale codice di procedura penale nacque nell’ultima stagione di autentico riformismo, e ne rappresenta l’atto più coraggioso. Passare da un modello inquisitorio, opaco e burocratico, consegnatoci dagli anni bui del ventennio, a uno accusatorio, fondato sul contraddittorio, sulla parità delle armi e sulla centralità del giudice terzo, era un passo culturale, rivoluzionario, prima ancora che tecnico. Ma la forma mutò senza che la sostanza la seguisse del tutto. Giudici e pubblici ministeri rimasero figli dello stesso corpo, con percorsi formativi comuni, carriere interscambiabili e un medesimo Consiglio Superiore. Un’unità di ordine che mal si concilia con la distinzione di funzioni su cui si regge l’idea stessa di giusto processo, in un’asimmetria strutturale data, appunto, dall’appartenenza al medesimo alveo ordinamentale.
Nel processo accusatorio, il pubblico ministero è una parte forte, autorevole, ma pur sempre una parte, e il giudice deve essere autenticamente terzo. Quando entrambi provengono dallo stesso alveo ordinamentale, la simmetria si spezza, la cultura del corpo tende a prevalere sulla cultura del ruolo. È questione di armonia e di architettura istituzionale: un edificio costruito su linee che si incrociano, inevitabilmente genera tensioni, in particolare quando il progetto prevede corpi distinti.
Ci sono voluti trentasei anni per giungere al momento del compimento della riforma del 1989, un lungo periodo preconizzato dal suo primo autore, Giuliano Vassalli, consapevole che la separazione ordinamentale, indispensabile corollario della separazione funzionale, sarebbe stata fortemente avversata dalla magistratura. “Perché non sarà possibile cambiare l'ordinamento giudiziario attuale? Non sarà possibile perché ormai, quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più, non lo abbandona più. La magistratura ha un potere enorme… ma non solo enorme in linea di fatto, lo ha sul potere legislativo…”.
Un lungo periodo dato da motivazioni che nascondono l’autentica volontà della magistratura: il timore di vedere il proprio potere spezzato in un dualismo, timore radicato nonostante la consapevolezza che un sistema accusatorio non può esser definito tale laddove il pubblico ministero appartiene al medesimo ordine del giudice.
Così il chiaro pensiero di Giovanni Falcone espresso nei primi anni di applicazione del nuovo codice: “Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi».
E ora, terminata la discussione parlamentare, i partiti politici si trovano davanti allo specchio. Ora la politica deve ritrovare se stessa, allontanarsi da visioni giustificate da ragioni elettorali di brevissimo periodo, che per alcuni, se non abbandonate, rappresenteranno un insulto alla propria storia, al proprio essere. Ogni volta che la separazione delle carriere è tornata nel dibattito pubblico, è stata risucchiata nel vortice della contrapposizione: destra contro sinistra, giustizialismo contro garantismo, nell’incapacità di cogliere che il vero nodo da sciogliere è solo e unicamente quell’interesse peculiare della magistratura, che in una sorta di superfetazione dell’ego non ha alcuna volontà di migliorare l ordinamento, se ciò altera i propri equilibri interni.
Ma il nodo può e deve esser risolto, se solo lo si considera nella sua autentica essenza: l’equilibrio tra poteri, la percezione di imparzialità, la fiducia dei cittadini in chi amministra la giustizia, questione che non può esser ridotta e sminuita all’ambito della contrapposizione partitica, sempre priva di alcuna autentica responsabilità politica e di considerazione del bene comune.
Confondere un principio di civiltà istituzionale con una bandiera di parte è il peggior modo di interpretare il ruolo di attore della politica, in particolare da parte di coloro per i quali la tutela dei principi di libertà, dignità e uguaglianza rappresenta il punto centrale del proprio essere. Il rischio è che, ancora una volta, si resti sospesi tra l’enunciazione dei principi e il timore di applicarli, e questa volta per una occasionale consonanza di intenti con i propri avversari.
I Padri Costituenti, all’indomani del crollo del regime totalitario, ci hanno consegnato una Carta Costituzionale di straordinaria attualità, che continua a indicare il percorso da seguire per il lungo cammino nell’attuazione dei suoi principi. La Carta trovò la sua scrittura nell’attenzione dei suoi autori al nostro futuro, uno sguardo in cui la contrapposizione partitica non ebbe mai spazio: esempio, questo, da tenere sempre in evidenza, quando si mette mano al contenuto di quella Carta.
Ora che il legislatore, dopo il passaggio parlamentare, consegna al referendum l’ultima parola, dobbiamo tutti essere consapevoli che, come cittadini, saremo chiamati a dare piena attuazione all’ art. 111 Cost., nella nuova formulazione introdotta nel novembre 1999, con la riscrittura del suo primo comma, in cui ora si stabilisce che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Una affermazione che richiama il concetto ideale di Giustizia, preesistente rispetto alla legge e direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel giusto processo che lo Stato, nei principi dell’art. 2 Cost., si impegna a riconoscere.
L’Italia resta una delle poche grandi democrazie occidentali con una evidente anomalia storica, che la nuova scrittura dell’art. 102 Cost. vuole risolvere, con la rimozione di un reliquato ordinamentale di quel periodo che la nostra Carta ha voluto cancellare.
Il riformismo autentico deve essere alieno dalle contrapposizioni partitiche, e soprattutto non può privilegiare gli interessi corporativi di alcuni a discapito di tutto il corpo sociale. Come è stato scritto e sottoscritto, «il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale». Ora il tempo è giunto: separare le carriere significa affermare che il tempo delle ambiguità deve finire, per consentire, finalmente, alla giustizia italiana di essere un potere rispettato perché trasparente, e non temuto perché opaco.
L’essenza della democrazia non è nell’unità dei poteri, ma nel loro equilibrio, e ogni equilibrio, per durare, ha bisogno di confini chiari.


