Non è più soltanto uno slogan, ma un principio di selezione. “Stabilità” oggi decide chi è legittimo e chi non lo è, cosa è accettabile nel discorso pubblico e cosa deve esserne espulso. Quando Giorgia Meloni rivendica in Parlamento una “stabilità politica rara”, non descrive solo lo stato delle istituzioni: definisce l’orizzonte simbolico entro cui il suo governo deve essere interpretato. Lo ha fatto anche sui social, ricordando che il suo è “il governo più longevo della Repubblica”: un primato usato non per misurare risultati, ma per certificare solidità morale. Nel recente intervento in Parlamento in vista del Consiglio europeo, la Presidente ha ripreso con forza questo schema. La stabilità è diventata la chiave interpretativa di ogni questione: la legge di bilancio del governo Meloni, presentata come prova di solidità nazionale; la politica estera, raccontata come equilibrio in un mondo instabile; e l’opposizione, descritta più come minaccia all’ordine che come alternativa. In questo senso, la stabilità non è solo una condizione politica, ma una narrazione performativa: un modo di nominare la realtà per orientare la percezione del presente.

Costruita come dispositivo di legittimazione, la stabilità sposta l’attenzione dalla qualità delle decisioni alla continuità del comando, dalla politica come costruzione di senso collettivo alla politica come cura del perimetro. Trasforma l’incertezza in governance del rischio e la decisione in manutenzione; il lessico tecnico – “indicatori solidi”, “attrattività”, “rating” – smette di descrivere e diventa performativo: accredita affidabilità, distribuisce fiducia e sfiducia, genera o meno consenso non attraverso i risultati ma attraverso l’appartenenza.

La finanziaria del governo Meloni non è più presentata come uno strumento per ridurre disuguaglianze o rilanciare crescita, ma come un certificato morale che prova la tenuta del metodo. Il linguaggio economico diventa linguaggio etico: il bilancio non serve a governare, ma a dimostrare che il governo sa governare. Sul piano internazionale, la stessa logica si ripete. Nell’attuale riassetto geopolitico – tra Trump, la guerra in Ucraina e il Medio Oriente – Meloni sceglie di rappresentare l’Italia come “voce di equilibrio”. Ma è un equilibrio conservativo, non mediativo, che tende a mantenere più che a comporre. La forza non consiste nel cambiare, ma nel non farsi cambiare.

All’interno, lo stesso schema agisce come dispositivo di esclusione. Le proteste e le piazze polarizzate diventano test di affidabilità verso l’ordine costituito. Non si discute più la domanda politica – che riguardi Gaza, i corridoi di pace o il posizionamento europeo – ma chi la pone: se è affidabile o disturbante, dentro o fuori dalla normalità. La stabilità non elimina il conflitto: lo amministra moralmente, trasformandolo in indice di disturbo.

Stabilità e polarizzazione sono due facce della stessa risposta alla crisi della fiducia. Sembra paradossale, ma è così: entrambe nascono dall’insicurezza e la nascondono. La stabilità promette calma, la polarizzazione promette chiarezza. La stabilità, allora, non promette progresso ma continuità cognitiva: riduce il rumore dell’epoca – l’inflazione di crisi, l’eccesso di eventi – offrendo un criterio semplice, la durata del comando come prova di verità. Funziona sul breve periodo, perché abbassa l’ansia collettiva, ma costa sul medio, perché depoliticizza la scelta e sposta la fiducia dal progetto alla postura.

Se la legittimazione nasce dalla perseveranza della forma più che dal contenuto delle decisioni, la cittadinanza diventa platea: spettatrice di una stabilità che non interroga e non discute. La politica, che dovrebbe produrre senso e assumere rischio, si riduce a gestione del margine, e il margine, per definizione, non è il futuro. Quando la decisione pubblica rinuncia alla direzione e si chiude nella durata, la fiducia non si rigenera e la calma smette di essere una conquista per diventare un anestetico: la calma apparente di un Paese che non cade, ma nemmeno cammina.

*Sociologa, assegnista di ricerca presso l’Università della Calabria