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LaPresse
C’è un fantasma che si aggira nella campagna referendaria sulla separazione delle carriere, nei fatti già iniziata con l’approvazione definitiva in Senato, ed è il “pinocchismo”.
Sono tutte le bugie, le suggestioni, le forzature che i detrattori della riforma stanno già mettendo in atto in modo da rendere più appetibile il rigetto di ogni speranza di cambiamento sulla giustizia. Si va dall’allarme sulla democrazia in pericolo, come dicono chiaro i cartelli esibiti dalla sinistra in aula, fino alla difesa di non si sa bene quale Costituzione, visto che la carta suprema è stata rivoltata almeno venti volte. E cambiarla non è reato. Ma, se queste sono le accuse generiche e più politiche contro il governo, cui i magistrati, almeno apparentemente, paiono sottrarsi, ben più mistificanti sono le altre, quelle che muovono il dito intimidatore sullo specifico significato della riforma, sulle sue finalità. E qui arriva Pinocchio con il suo naso lungo.
L’argomento primo è una colossale bugia, e le toghe lo sanno benissimo. Ciononostante dicono in coro: la vera intenzione del governo e del parlamento è quella di controllare il pubblico ministero. Allo scopo, aggiungono, di impedirgli di avviare inchieste nei confronti di politici e amministratori. La prima obiezione è che la Francia, dove il pm risponde direttamente al ministro della giustizia, ha saputo mettere sotto inchiesta proprio il guardasigilli e addirittura mandare in galera un ex presidente della repubblica. Ma soprattutto va ricordato che l’articolo 104 del testo di riforma dice esattamente il contrario: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente».
E’ a questo punto, davanti alla lettura del testo, che scatta il processo alle intenzioni, come se fosse inevitabile, non si sa bene come né quando, approdare a una seconda futura riforma che tolga al rappresentate della pubblica accusa quella caratteristica di indipendenza e autonomia che la legge approvata ieri dal Senato ha mantenuto. E che è una pecurialità del sistema portoghese, cui il nuovo ordinamento italiano si ispira.
Mentre la dipendenza esiste sia in un sistema di unicità di carriere come la Francia ( dove abbiamo visto non esservi comunque un problema di subalternità politica), che nei regimi di common law come il Regno Unito o gli Usa, dove il pm è in parte carica elettiva e in parte di nomina governativa. Ma anche lì si processano i presidenti.
Speculare a questo timore di ritrovare un pubblico ministero intimorito e subalterno al governo, è l’altro argomento di chi dipinge i futuri rappresentanti dell’accusa come una sorta di squadrone della morte, fortissimi e dediti solo ad accusare e arrestare, senza più preoccuparsi di andare, come prescrive la legge, anche alla ricerca di elementi a favore dell’indagato o dell’imputato. A questo punto non possiamo che porgere la consueta domanda, magari al dottor Gherardo Colombo o a Giancarlo Caselli e ai tanti pm o ex che in interviste hanno citato questa obiezione: potrebbe ciascuno di voi, ricordarci dieci casi noti in cui avete portato nella fase delle indagini o al processo le prove a favore dell’indagato o dell’imputato?
A questa domanda non sa rispondere mai nessuno. Anzi, a questo argomento ne viene subito associato un altro, molto suggestivo, quello della “cultura della giurisdizione”, di cui verrebbe privato il pm qualora la sua carriera venisse separata da quella del giudice. Anche su questo punto l’obiezione non è difficile, dal momento che, quantomeno i magistrati, dovrebbero aver studiato il latino e conoscere il codice giustinianeo. Da che cosa deriva infatti il concetto di giurisdizione? Da “juris dicere”, cioè risolvere un conflitto sulla base della legge.
Il che qualifica il giudice, non certo una parte processuale. Sarebbe gravissimo, anche se spesso nell’opinione pubblica è così, se si attribuisse alla parola del pubblico ministero la sacralità del decidere chi sono gli innocenti e chi i colpevoli di un determinato delitto. Saremmo di fronte davvero in quel caso a un “mutamento genetico” del pm, opposto a quello che viene agitato, per esempio nelle parole del segretario dell’Anm, Rocco Maruotti, preoccupato di preservare il pm da possibili contaminazioni magari di quelli con la toga “sbagliata”, i difensori.
Toni persino offensivi, come quelli riservati ai colleghi che avessero la sorte di venire sorteggiati per entrare a far parte del Csm. Come se al di fuori delle correnti sindacali, le cui degenerazioni conosciamo quanto meno dai giorni della denuncia di Luca Palamara, non ci potessero essere competenza e capacità. Dallo sprezzo dei toni su questo argomento si capisce quanto questa parte della riforma, condivisa persino dal front-man dei Comitati per il No Nicola Gratteri, sia la vera spina piantata nel cuore del sindacato delle toghe. Tanto che qualche quotidiano più astuto come Il Manifesto ha già fatto qualche titolo per segnalare il sorteggio dei membri del Csm come il vero “bersaglio” della riforma.
Accanto a queste non innocenti suggestioni, ci sono però anche i vuoti, a far parte del “pinocchismo”. Il primo dei quali è la mancata risposta alla domanda: come mai l’ordinamento italiano rappresenta un unicum nell’ intero mondo occidentale? Siamo i primi della classe o gli asini dell’ultimo banco?


