Ricorda il Manzoni, nell’introduzione della sua “Storia della Colonna infame”, come questo fu il nome che venne dato alla colonna posta nel 1630 a memoria ed a monito dell’orribile e infame delitto degli untori. Eretta nel luogo dove sorgeva la bottega di barbiere di Gian Giacomo Mora, presunta officina della “peste manufacta”, demolita per ordine di quella stessa sentenza che aveva condannato a morte atroce sulla “ruota” gli imputati. Un delitto, confessato dopo terribili torture, che gli imputati non avevano commesso.

La stele eretta dal Comune di Roma in via del Corso, nel luogo ove quarantuno anni fa, il 17 di giugno del 1983, venne arrestato, in favore di telecamere, Enzo Tortora, dovrebbe dunque essere una colonna infame “alla rovescia”. Non a monito e in ricordo di un delitto, ma di un processo. In memoria di una vicenda processuale che costituì l’orribile sovvertimento di ogni ragionevole principio di giustizia e forse il punto più basso toccato dalla giurisdizione penale di questo Paese.

Si trattò di una ingiustizia tanto più infame perché consumata teatralmente davanti ad un popolo plaudente, attraverso uno dei primi straordinari esperimenti di “gogna mediatica”, di concerto con una informazione giudiziaria supina al format spettacolarmente inscenato dagli inquisitori del noto presentatore, a loro dire colto con le mani nella marmellata e caduto nel fango.

Il peggio del nostro vecchio e orrido armamentario del codice inquisitorio (che qualcuno ancora rimpiange) si andò intrecciando con una cinica visione proto-giustizialista alla quale solo pochi nel mondo della politica e della cultura si sottrassero esemplarmente. Dopo la lunga “carcerazione preventiva”, l’elezione al Parlamento europeo su invito del Partito Radicale e poi la condanna a dieci anni di reclusione, perché Tortora aveva chiesto che il Parlamento concedesse l’autorizzazione a procedere.

Una sentenza costruita sull’intreccio perverso di dichiarazioni calunniose concordate fra presunti pentiti dai soprannomi indimenticabili (“o’ animale”, “o’ pazzo” …), maturate e coltivate fuori da ogni minimo e ragionevole controllo giudiziario e ad ogni minimo vaglio probatorio. Si tratta di una storia esemplare, di un orrore giudiziario per il quale nessun magistrato ha pagato, che non può essere dimenticato e la cui memoria deve restare salda ed essere di monito, sia per le generazioni future, che questa storia non hanno vissuto e non conoscono ancora, sia per chi oggi si batte per una giustizia giusta e per un processo più equo.

Perché nulla di ciò che ha segnato quella vicenda è davvero cambiato. Non l’irresponsabilità di chi sbaglia, né tantomeno le condizioni delle carceri. Non le distorsioni del processo mediatico e neppure le garanzie del processo. Basti pensare che quello a carico di Enzo Tortora “camorrista” sarebbe stato oggi un processo da “doppio binario” e da 41-bis, con l’applicazione di tutte le deroghe al “giusto processo”, i cui esiti sarebbero ancora oggi del tutto incerti, trattandosi di un processo che non si svolge nella pienezza del contraddittorio nella formazione della prova e mancando ancora oggi la garanzia di un “giudice terzo”.

Ed è per questo che l’Unione delle Camere penali ha ancora una volta voluto celebrare, nel luogo e nel giorno dell’arresto di Enzo Tortora, la necessità di una giustizia penale che sia sempre rispettosa della dignità dell’uomo e dei valori della Costituzione. Ed è per questo che quella sorta di stele “d’inciampo”, la cui realizzazione è frutto dell’impegno di Francesca Scopelliti e di Francesco Rutelli, costituisce un punto fermo importante per i valori civili della città che l’ha voluta erigere e dell’intero Paese.

Come scriveva Enzo Tortora alla sua compagna dal carcere di Bergamo, il 27 ottobre 1983, parlando della sua condizione: “Enzo è una lontana scommessa … uscirà stravolto, certo malato. Pieno di obblighi ai quali, finché avrà fiato, dovrà fare onore”. Ecco, noi quella lontana scommessa l’abbiamo raccolta e cercheremo di fare onore ai suoi indimenticati ed indimenticabili obblighi finché avremo fiato.