“Roma ricorda il giornalista e personaggio televisivo Enzo Tortora qui arrestato nel 1983 per accuse infondate poi assolto in via definitiva dopo anni di detenzione e di coraggioso impegno per una ‘giustizia giusta’”. È un tributo ma anche un monito quello che il Comune di Roma ha voluto dedicare al conduttore tv quarantuno anni dopo quel terribile 17 giugno 1983. Ovvero il giorno che ha dato inizio al “caso Tortora” con il clamoroso arresto a favore di telecamere all’Hotel Plaza di Roma.

Per trasferirlo nel carcere di Regina Coeli, i militari aspettarono che fosse mattina, per garantire a cameramen e fotografi un posto in prima fila per riprendere il presentatore con i ceppi ai polsi, in quella “passerella della vergogna” che entrò nelle case di tutti gli italiani. Una giornata buia, per la giustizia italiana, la peggiori che si ricordi. Che ora resta incisa su una stele commemorativa inaugurata oggi davanti all’albergo dove il giornalista alloggiava. A svelarla ci sono Francesca Scopelliti, compagna di vita e presidente della Fondazione Tortora, l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli e, in rappresentanza del Comune, la presidente del primo municipio Lorenza Bonaccorsi e l’assessore alla cultura Miguel Gotor.

«Se Tortora è morto giovane e inaspettatamente colpito da una malattia terribile è certamente per il dolore che ha avuto. E dunque che la capitale d’Italia oggi gli dedichi un’iscrizione che ricorda non solo la sua innocenza, ma il valore di questa battaglia che ha condotto in nome di tutti noi italiani, è un fatto di straordinario valore», dice Rutelli dal palco allestito nella piazzetta davanti all’albergo. Il riferimento è alla dolorosa vicenda umana e giudiziaria che portò il conduttore a battersi per una giustizia migliore fino alla sua morte nel 1988. Insieme a Marco Pannella, con i referendum “traditi” sulla responsabilità civile dei magistrati e con ogni altro mezzo, denunciando ogni giorno la gogna e il massacro mediatico che lui ed altri avevano subito. Una «giustizia politica», la definisce Rutelli, senza trascurare la responsabilità dei giornalisti che coprirono di fango un collega condannato prima di ogni verdetto.

Enzo Tortora, passato in un attimo dall’essere l’amatissimo volto tv di Portobello a “delinquente certo”, il più «antipatico» degli imputati sul cui capo pendeva un’accusa infamante: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il suo nome lo avevano tirato fuori i pentiti, e per il resto era bastato un pizzico di immaginazione: troppo ghiotta l’occasione di mettere in “copertina” di inchiesta un personaggio tv. Da lì, il processo mediatico che anticipò quello vero. Con la condanna a 10 anni in primo grado nel 1985. Quindi il ribaltamento nel 1986, in Corte d’Appello a Napoli, con la sentenza di assoluzione resa definitiva un anno dopo dalla Cassazione. Nel mezzo la candidatura al Parlamento Europeo con i radicali, su proposta dello stesso Rutelli, che ne ripercorre la vicenda ricordando «la battaglia e la dignità cristallina» di chi come Tortora rinunciò all’immunità parlamentare per dimostrare la propria innocenza.

«Quarant’anni sono tanti, sono molti perché sono stati muti», scandisce Francesca Scopelliti. Che quei giorni della vergogna li ha vissuti uno per uno, accanto ad Enzo, dalla custodia in carcere, ai domiciliari, fino alla fine. «Se un paese non riesce a fare tesoro di una vicenda per correggere quelle distorsioni che l’hanno caratterizzato, vuol dire che tutta quella storia è stata inutile. Perché alla vicenda di Enzo Tortora non hanno saputo porre rimedio», prosegue Scopelliti. Che quel «crimine giudiziario» avrebbe voluto farlo analizzare come si fa con un corpo sul tavolo dell’autopsia: per analizzare le cause e porvi rimedio.

Invece questo non l’ha fatto nessuno, ribadisce Scopelliti. Che lunedì, in occasione dell’anniversario dell’arresto, prenderà parte alla maratona oratoria organizzata dall’Unione camere penali e dai penalisti romani insieme alla Fondazione Tortora. L’appuntamento è a Largo San Carlo al Corso, dalle ore 10.30. Parleranno avvocati, giornalisti, politici, amici. E anche l’ex giudice Tullio Morello, colui che con la sua relazione spianò la strada all’assoluzione.

Saranno loro, ancora una volta, a dare voce a Enzo Tortora. Le cui parole risuonano ancora, tra le pagine del libro “Lettere a Francesca” che Scopelliti tiene stretto tra le mani. Ne legge un passo, prima di svelare la stele che da oggi resterà radicata nel cuore di Roma come un «atto di memoria». Come una spina che sanguina ancora: «Qui è tutto infinitamente difficile, burocratico, lunare. Mi tiene in piedi solo la volontà di dimostrare a quelli che amo di essere innocente e di uscirne a testa alta. Ma è stato atroce, Francesca, uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella con altri cinque disperati, non so capacitarmi e trovare un perché, una ragione. Trovo solo un muro di follia. E se è possibile questo, Francesca, è possibile tutto».