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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio
Sentivo alla Radio radicale domenica il discorso di Giorgia Meloni a Pescara - quello chiusosi con l’annuncio della candidatura alle elezioni europee di giugno a capo di tutte le liste della sua destra e con l’invito a votare semplicemente Giorgia - e pensavo ad una decina d’anni fa.
Enrico Letta si leccava le ferite di una brutta caduta da Palazzo Chigi procuratagli dal collega di partito e appena segretario Matteo Renzi. Che gli aveva promesso “serenità” e procurato invece inquietudine e infine rabbia. L’ex premier e ancora parlamentare era alla ricerca di una nuova occupazione, o persino rivalsa morale. La trovò l’anno dopo a Parigi, in rue Saint Guillaume, rinunciando al seggio parlamentare in Italia e rimediando un contratto d’insegnamento alla Science Po, un rinomato istituto internazionale di studi politici.
Da cui poi si sarebbe dimesso per prendere in Italia, richiamato in particolare dal dimissionario Nicola Zingaretti, quello che era stato il posto di Renzi al Nazareno, alla guida del Pd. Una storia, se permettete, tutta elitaria, o di palazzo, come direbbero gli antipatizzanti della politica. Che a volte esagerano, ma altre volte no.
Giorgia Meloni, invece, sempre una decina d’anni fa, si leccava le ferite delle prime elezioni affrontate nel 2013 col nuovo partito di destra fondato l’anno prima. Ne era uscita con un misero 1,9 per cento dei voti. Continuò a percorrere le strade della sua Garbatella, a Roma, e delle periferie delle altre città italiane a scuola di politica, per quanto fosse già stata vice presidente della Camera e ministra dei governi di Silvio Berlusconi su designazione della destra capeggiata allora da Gianfranco Fini.
Scrivo “a scuola di politica” non per esaltarne ma solo per ricordarne e riconoscerne obiettivamente l’umiltà, da lei investita non per intrupparsi in qualche maggioranza più o meno larga ma per starsene all’opposizione ad ogni combinazione o governo. I risultati di quella scuola di umiltà - bisogna ammetterlo, al di là di tutto il dissenso che possono meritare le sue azioni di partito e ora di governo, addirittura alla guida - non mi sembrano da buttare via. Parlano sia quel 26 per cento di voti conseguito nelle ultime elezioni politiche sia quella pur retorica identificazione col “popolo” che l’ha portata con furbizia da professionista ormai della politica a chiamarsi ieri, farsi chiamare e farsi votare “solo Giorgia”: in un rapporto con l’elettorato che ricorda un po’ - sul versante opposto - solo la buonanima di Berlinguer. Che gli elettori comunisti chiamavano Enrico e che, non a caso, si è guadagnato ieri un’ovazione alla memoria dal pubblico della Meloni dopo un confronto giornalistico e politico fra Bianca Berlinguer, la figlia, e il presidente destrissimo del Senato Ignazio La Russa. Piuttosto che protestare a prescindere, a vedere dappertutto fascismo o qualcosa di analogo o propedeutico, di immaginare reati di omesso antifascismo o di seduzione elettorale da contestare alla Meloni, penso che a sinistra, ma anche al centro che ambisce a condizionarla al posto dei grillini di Giuseppe Conte, sia venuta l’ora di un esame salutare di coscienza.
L’ora di scendere dalle stelle del già ricordato Conte alle stalle. E di cercare di recuperare tutto il terreno perduto, prima che sia troppo tardi, se non lo è già diventato.