Più di così Giorgia Meloni detta Giorgia non poteva fare. Prima il guanto della sfida lanciato alla rivale Elly, «tutte e due in campo e ci contiamo», poi la suspence, un tormentone dall’esito scontato in partenza, poi la candidatura ormai annunciata ma col colpo di scena della richiesta di votarla solo col nome. Un po’ per fare notizia comunque, molto per strizzare l’occhio alla complicità con gli elettori che così la sentono amica e loro pari. Ma molto, anzi moltissimo, anche per massimizzare l’effetto plebiscito cercando di trasformare l’eventuale successo della destra, al netto delle competizioni interne, e del suo partito, in un’affermazione personale.

Non ce ne sarebbe bisogno. L’identificazione tra Fratelli d’Italia e la sua leader è totale e tutti avrebbero saputo comunque che i voti al partito andavano interpretati come voti alla sua leader. Ma Meloni vuole che sia chiaro ed esplicito: conclamato. Lo vuole e soprattutto ne ha bisogno almeno per due distinte ragioni. La prima è che la premier sa di avere di fronte una navigazione perigliosa e accidentata. Rinfacciarle l’aver accettato il nuovo Patto di Stabilità è allo stesso tempo giusto e inevitabile per l’opposizione quanto ingeneroso: al suo posto, con la pressione della Germania che non lasciava scampo, qualsiasi governo avrebbe dovuto fare lo stesso. Ma quel Patto, sommato a un quadro economico squassato dalla mossa folle del Superbonus, significa dover governare con le tasche vuote, e ciò significa a propria volta scontentare gli elettori e molto probabilmente scontare anche divisioni nella maggioranza. Quando la coperta è corta, e in questo caso è molto corta, è inevitabile che tutti la tirino dalla loro parte, anche piuttosto brutalmente.

L’incoronazione che Giorgia si aspetta dalle urne del 9 giugno servirà a tenere a bada, impugnando la legittimazione diretta e popolare sia gli attacchi dell’opposizione, sempre che prima o poi diventino temibili come sinora non sono mai riusciti a essere, sia soprattutto le prevedibili bizze all'interno della maggioranza sulla ripartizione delle scarse risorse.

In secondo luogo, la premier prepara con largo anticipo la vera prova dalla quale dipenderà per intero il suo destino politico: il referendum sul premierato. Il fatto che ancora se ne parli poco non deve trarre in inganno: la partita nella quale la premier e la destra si giocheranno tutto sarà quella e sarà una partita durissima, senza esclusione di colpi. A scegliere di mettere sul tavolo l’intera posta è stata in realtà l’opposizione, in particolare il Pd. Ha scelto di non provare a emendare un testo che necessiterebbe di correzioni come dell’ossigeno, ma di spostare la prova sul piano del muro contro muro. Lo ha fatto convinta di poter vincere e la premier sa che le urne potrebbero dar ragione ai rivali. Dunque sceglie la strada del praticare l’obiettivo, abituando da subito il popolo votante a considerare le elezioni non una scelta tra partiti e programmi politici ma tra leader.

La stessa forzatura sul nome invece che sul cognome risponde in fondo a questa impostazione: quando si vota per la persona una componente di enorme importanza è rappresentata dall’identificazione. Chiedere il voto sul nome serve proprio a facilitare l’immedesimazione diretta degli elettori con la premier “popolana”, con la sua personalità prima e più che con le sue idee e il suo disegno. Il premierato, la competizione tra i leader in nome della loro personalità, sarà in questo modo, almeno negli auspici della candidatissima, già stata digerita dagli elettori quando si apriranno le urne referendarie.

La mossa ha una percentuale di azzardo. Risultati al di sotto delle trionfali aspettative sarebbero una mazzata per l’immagine della premier e inciderebbero a fondo anche sul referendum stesso. Un successo però Giorgia Meloni lo ha già ottenuto: leader che avevano escluso la loro candidatura, come Tajani e Calenda, ci hanno dovuto ripensare; Elly Schlein, sgusciando tra le insidie e le necessarie mediazioni nel suo partito, ha accettato la sfida; Salvini se ne è chiamato fuori ma mettendo in campo, contro buona parte del suo stesso partito, un candidato-avatar come Vannacci, che riassume nella sua persona l’intero progetto salviniano: una Lega apertamente di estrema destra, che si propone come partito nazionale e d’opinione invece che nordico e di rappresentanza d’interessi. Solo Conte si è tenuto davvero in disparte, pur sapendo di perdere così voti potenziali, e lo ha fatto per un motivo preciso. È convinto di essere lui il vero rivale diretto della premier, in veste di candidato del Campo Largo o, se non saprà possibile, di puparo che indica un nome della società civile, anche lui come avatar. Dunque ha preferito evitare il rischio di bruciare ora le sue carte.