Nel giudizio innanzi al tribunale di Firenze, iscritto nei confronti di Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese per il reato di cui all’articolo 580 c.p., il Gip Agnese Di Girolamo ha chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare illegittimo l’art. 580 c.p. nella versione modificata dalla stessa Corte con sentenza n. 242/2019, nella parte in cui richiede che la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio sia subordinata alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita “mediante appositi trattamenti di sostegno vitale” (ventilazione assistita, idratazione e alimentazione artificiale ecc.) per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 32 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione EDU.

Un requisito previsto dalla Corte costituzionale unitamente agli altri (capacità di intendere e di volere, una malattia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica), e il parametro utilizzato è il principio di eguaglianza con le condizioni fisiche di DJ Fabo, anziché l’autodeterminazione voluta e regolamentata dalla legge 219/2017 a cui peraltro fa riferimento la stessa Corte costituzionale in altre circostanze. In vicende analoghe la presenza di trattamenti vitali è condizione del tutto irragionevole, foriera di discriminazioni visto che la maggior parte delle persone che chiedono l’aiuto al suicidio non sono necessariamente sostenute da trattamenti di sostegno vitale (che per altro potrebbero rifiutare). In questo come in altri giudizi la presenza di trattamenti di sostegno vitale si sarebbe dovuta considerare da parte della Corte una condizione “aggiuntiva”, solo eventuale. Ritenerla necessaria, infatti, crea una discriminazione incostituzionale (ai sensi degli artt. 2, 3, 13, 32 Cost.) fra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti, pur affetti da patologia anche gravissima e con forti sofferenze, non lo sono o non lo sono ancora.

Si imporrebbe, inoltre, a questi ultimi di accettare un trattamento anche molto invasivo, come nutrizione e idratazione artificiali o ventilazione meccanica, al solo scopo di poter richiedere l’assistenza al suicidio, prospettando in questo modo un trattamento sanitario obbligatorio senza alcun motivo ragionevole.

Peraltro, parlare di trattamenti di sostegno vitali è terminologia incerta e dovrà essere meglio definita dallo stesso legislatore. Il Tribunale di Massa (27 luglio 2020) nel caso Trentin tende a non differenziare la dipendenza da un sostegno vitale dalla necessità di assistenza continua senza la quale il paziente “non si sarebbe potuto alimentare, non avrebbe potuto espletare i propri bisogni fisiologici, sarebbe dovuto rimanere immobile a letto”. E il Tribunale sottolinea come nel caso in esame vi fosse una dipendenza da una persona senza il cui aiuto il paziente non poteva sopravvivere, in modo pressoché analogo a chi sopravvive grazie ai trattamenti di sostegno vitale. Anche il Comitato etico del Tribunale di Ancona (9 giugno 2021) in merito ai trattamenti di sostegno (caso Mario) invita ad una riflessione e non esclude una discriminazione tra quanti sono mantenuti in vita artificialmente e quanti ricevono una forma di assistenza continuativa che in modo analogo li tiene in vita.

In gioco è certamente il principio della dignità umana peraltro invocato dalla Corte costituzionale nella sentenza 242/2019 e ravvisato nella circostanza per cui il divieto assoluto di aiuto al suicidio avrebbe imposto alla persona un’unica modalità per congedarsi dalla vita (l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale) ed esposto il paziente a subire un processo più lento (la sedazione profonda), in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire, anche nella prospettiva delle sofferenze cui ciò poteva esporre, di riflesso, le persone che gli sono care.