Non è la prima volta, ma potrebbe essere l’ultima. A distanza di cinque anni dalla storica sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Antoniani/Cappato sul caso Dj Fabo, la Consulta torna ad esprimersi sul fine vita. Con la possibilità di definire una volta per tutte la disciplina che attualmente regola l’accesso al suicidio assistitito in Italia in mancanza di una legge in materia.

La gip di Firenze Agnese De Girolamo ha infatti sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, istigazione o aiuto al suicidio, per contrasto con gli articoli 2, 3, 13, 32, e 117 della Carta, e di quest’ultimo in riferimento agli articoli 8 e 14 della Convenzione Edu. Il nodo riguarda uno dei quattro requisiti previsti dalla Consulta, che ha in parte legalizzato l’accesso al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni: che la persona malata sia affetta da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche che la malattia determina e, infine, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Quattro requisiti, dunque, in base ai quali si esclude la punibilità di chi fornisce l’aiuto alla morte volontaria. Il caso in esame ha a che fare con l’ultimo punto, il “sostegno vitale”, che rischia di discriminare alcuni pazienti se interpretato in maniera restrittiva: molti dei malati che vorrebbero accedere alla procedura, e in particolari i malati oncologici, non dipendono da un macchinario al quale “staccare la spina”, ma per rimanere in vita hanno bisogno di molte altre cose - un’assistenza costante, un farmaco, o una terapia. Come nel caso di Massimiliano, il 44enne toscano malato di sclerosi multipla dalla cui vicenda scaturisce il procedimento nei confronti di Felicetta Maltese e Chiara Lalli, che nel dicembre 2022 lo hanno accompagnato in una clinica in Svizzera per poter ricorrere al suicidio assistito.

Insieme a Marco Cappato dell’Associazione Coscioni, entrambe si sono denunciate presso la stazione dei carabinieri di Firenze, e un anno dopo, lo scorso 23 novembre, si è tenuta l’udienza davanti al gip che, a seguito della richiesta di archiviazione della procura, il 17 gennaio ha emesso l’ordinanza di rimessione alla Consulta. «Allo stato la richiesta di archiviazione non potrebbe essere accolta», spiega la gip, perché «la condotta degli indagati rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 580 del codice penale, in particolare nella fattispecie di aiuto al suicidio, senza che possa beneficiare della causa di non punibilità introdotta» con la sentenza 242.

«Nel caso di specie sussistono tutti gli elementi costitutivi del titolo di reato in origine ipotizzato dal pubblico ministero», si legge nell’ordinanza. Si esclude il reato di istigazione, avendo Massimiliano scelto autonomamente di porre fine alla propria vita autosomministrandosi il farmaco letale, ma resta l’ipotesi di aiuto, per la «cooperazione e partecipazione materiale alla realizzazione del sucidio» da parte degli indagati. I quali rischiano dai cinque ai 12 anni di carcere.

La Consulta, come si è detto, aveva già affrontato la questione e sollecitato il legislatore a colmare il vuoto in materia. Ma di fronte all’inerzia del Parlamento, ogni caso dipende dall’interpretazione che il giudice fa della sentenza 242. «Una disciplina che appare sospettabile di legittimità costituzionale sotto diversi profili», come ha spiegato la stessa procura nella richiesta di archiviazione: pur ritenendo che Massimiliano non dipendesse da un “sostegno vitale”, neanche in senso allargato, il pm ritiene che ciò non dovrebbe impedire al giudice l’applicazione della causa di non punibilità, perché il requisito in discussione «discrimina irragionevolmente tra situazioni per il resto identiche, poiché impedisce l’accesso al suicidio assistito di persone che pure presentano una malattia irreversibile e una sofferenza intollerabile».

«Come Massimiliano, molte altre persone hanno tre requisiti su quattro e non possono e non hanno potuto scegliere. Come Massimiliano, molte persone non vogliono più vivere e dovrebbe essere un loro diritto scegliere», spiega al Dubbio Chiara Lalli. «Siamo fiduciosi nel lavoro dei giudici della Consulta. Il trattamento di sostegno vitale, se interpretato in senso restrittivo, è un requisito discriminatorio in quanto non incide sulla capacità di prendere decisioni, sulla irreversibilità della malattia, né sulle sofferenze intollerabili», commenta Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni, difensore e coordinatrice del collegio legale. E chissà che questa volta la Corte scriva davvero la parola fine.