È un rapporto controverso. Ambivalente. Corte costituzionale e politica parlano con difficoltà. Comunicano tra incomprensioni, insofferenze, tentativi di apertura presto respinti. Da tempo il rapporto fra la maggioranza di centrodestra e il giudice delle leggi viene ricondotto alla scadenza dei quattro componenti che, nei prossimi mesi, il Parlamento potrà avvicendare: l’ex presidente Silvana Sciarra, che ha già completato a fine 2023 i propri nove anni (e attualmente infatti la Corte ha 14 giudici anziché 15), il suo successore Augusto Barbera e due dei tre attuali vicepresidenti, ossia Franco Modugno e Giulio Prosperetti.

I 4 nuovi giudici dovrebbero conferire al collegio della Consulta un orientamento in teoria più sintonico con il nuovo Esecutivo. Alle tensioni tra l’organo di garanzia e la politica hanno fatto riferimento, ieri, gli approfonditi articoli di due firme di peso: Donatella Stasio su La Stampa e Martino Cervo su La Verità. La prima è stata per anni, dal 2017 al 2022, responsabile comunicazione della Corte, è autrice, insieme con Giuliano Amato, del recente “Storie di diritti e di democrazia” e, dal quotidiano diretto da Maurizio Molinari, è assai severa nei confronti della “destra” che, scrive, sarebbe incapace di tollerare l’inevitabile spirito “contromaggioritario” della Consulta. Cervo invece fa un’ampia recensione di un altro libro importante, “Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale”, firmato dall’ex giudice della Consulta Nicolò Zanon, del quale trovate un’ampia intervista in queste pagine. Il vicedirettore de La Verità incrocia la polemica con l’orientamento della Corte a suo giudizio sempre più sbilanciato a favore della funzione “creativa di nuovi diritti” esercitata dai giudici di merito.

Sono poli di una tensione che in ogni caso esiste, che riguarda uno dei due organi di garanzia del nostro sistema (l’altro è la Presidenza della Repubblica) e che sarebbe impossibile negare. Ma l’origine del conflitto non sembra riguardare solo l’attuale maggioranza: è probabilmente nella difficoltà di conciliare, per esempio sul sempre scivoloso terreno della giustizia, l’attenzione dei partiti alle pulsioni più intransigenti dell’opinione pubblica con le pronunce costituzionali più “impopolari”. È esemplare il caso dell’ordinanza (la 97 del 2021) sull’ergastolo ostativo. Pur non immediatamente “applicativa”, pur aperta a un successivo, necessario intervento del legislatore (che, al “primo giro”, non arrivò), quella decisione stabiliva in modo già chiaro e inequivocabile che, dalla mancata collaborazione con la giustizia, non si poteva presumere in modo assoluto la permanenza degli ergastolani condannati per mafia nel perimetro criminale di provenienza.

Alla base del silenzio potevano evidentemente esserci – segnalò il giudice delle leggi in linea con la giurisprudenza della Cedu e con quanto egli stesso aveva sancito a proposito dei permessi premio – motivi diversi dalla collusione postuma, a cominciare dai timori di rappresaglie nei confronti dei propri cari. La Consulta diede un anno di tempo alle Camere per definire in modo “sicuro” il diritto, per gli ergastolani “non collaboranti”, alla liberazione condizionale. Ebbene, contro quell’ordinanza, il primo partito a mobilitarsi fu il Movimento 5 Stelle, all’epoca saldamente parte della maggioranza di governo: si mise all’opera per scrivere una legge che recepisse il dettato della Corte costituzionale in modo da neutralizzarne, nella sostanza, gli effetti. Si prevedevano paletti così stringenti, per il mafioso condannato al “fine pena mai”, da lasciare il beneficio di fatto inaccessibile ai non pentiti. Quell’impianto normativo, che nella scorsa legislatura non aveva ottenuto il via libera parlamentare, è stato ereditato dal governo Meloni che, appena insediato, lo ha fatto proprio e varato anche con qualche inserto “peggiorativo”. Tutto per dire che M5S e FdI hanno, con certe sentenze della Consulta, lo stesso identico problema: le avvertono come contrarie a quell’intransigenza che, in materia di mafia soprattutto, è considerata imprescindibile, o meglio necessaria a preservare il consenso delle rispettive basi elettorali. È vero dunque che le maggioranze di governo, quella attuale come la precedente, non sopportano lo spirito contromaggioritario della Consulta, ma è vero pure che non si tratta di un carattere tipico della “destra”. È piuttosto un vizio delle maggioranze con connotazioni populiste. Ed è un vizio che neppure i partiti cosiddetti “moderati”, di centrodestra e di centrosinistra, riescono a mitigare: si pensi, sempre a proposito di ergastolo ostativo, all’incapacità di Forza Italia, ma anche dei partiti garantisti di centro (Azione e Italia viva), di opporsi alla legge ultrarigorista sull’ergastolo. Si pensi, allo stesso modo, pure al “testo base” elaborato, sul “fine pena mai”, nel 2022 dai 5 Stelle e in particolare dall’allora presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni (certo non il più estremista, nel Movimento, in quest’ambito): ebbene, quel testo fu scritto a quattro mani con un deputato dem, Carmelo Miceli.

Adesso l’insofferenza e a volte l’arroganza nei confronti della Consulta emerge, oltre che su materie come fine vita e coppie omogenitoriali (come ricorda in particolare Stasio nel proprio articolo di ieri), anche su altre pronunce in materia di giustizia e di carcere: basti pensare a quella che, in teoria, imporrebbe immediatamente al Dap di mettere le “stanze dell’amore” a disposizione dei detenuti. Del “diritto all’affettività”, la Consulta si è occupata con la sentenza numero 10 di quest’anno ma, c’è da scommetterci, resterà inascoltata.

E a proposito di organi costituzionali, di poteri dello Stato e di “resistenze”, sarà interessante capire se un’altra recente e importantissima sentenza costituzionale in materia di giustizia, la 41 del 2024 che censura le archiviazioni per prescrizione qualora alludano a una probabile colpevolezza dell’indagato, sarà effettivamente rispettata dalla magistratura, prima ancora che dalla politica. Sarà interessante se la più generale richiesta, avanzata dalla Consulta, di maggiore sobrietà nel linguaggio dei magistrati si rifletterà in un cambio di passo. O se dovremo continuare ad assistere a pm come Nicola Gratteri che, di fronte alle norme sulla presunzione d’innocenza, se ne fanno beffe manco fossero editti borbonici.