PHOTO
Il nostro sguardo non è cambiato: forse più disincantato, certamente più consapevole, ma ancora capace di riconoscere quando il Paese arriva a un bivio. Tra il 1974 e il 1981 l’Italia visse due referendum abrogativi che modificarono profondamente l’ordinamento civile.
Nel maggio 1974 il referendum promosso da Dc e Msi per abrogare la legge sul divorzio contava sul voto compatto dei cattolici; accadde invece l’opposto. Quel voto si trasformò in un momento di autodeterminazione collettiva che sancì, di fatto, la laicità dello Stato. Nel 1981 il referendum proposto dal Movimento per la vita affrontò il tema dell’interruzione volontaria di gravidanza: ancora una volta una parte significativa dell’elettorato cattolico votò diversamente dalle gerarchie politiche e religiose, ritenendo prioritaria l’autodeterminazione delle donne e la tutela della loro salute.
Erano anni in cui il Paese era attraversato dalla violenza degli anni di piombo, un conflitto di potere mascherato da ideologia. Eppure a prevalere fu la tutela dei diritti fondamentali, nel senso profondo della giustizia come equilibrio tra libertà individuale e responsabilità collettiva. Oggi siamo di fronte a un altro bivio, meno visibile ma non meno decisivo. Il referendum sulla separazione delle carriere, sulla riforma del Csm e sulla Alta Corte disciplinare non può essere ostaggio delle logiche di appartenenza partitica: riguarda, ancora una volta, a distanza di decenni, l’idea stessa di giustizia.
Riguarda la tutela del diritto di difesa, il valore della giurisdizione come limite e garanzia, l’effettiva terzietà del giudice. Quarant’anni fa la posta in gioco era chiara: libertà di scelta, autodeterminazione, modernizzazione dei rapporti civili. Molti elettori, pur appartenendo a un’area politica formalmente contraria, votarono secondo coscienza. La divisione era netta e la direzione del futuro riconoscibile.
Oggi ciò che allora era sostenuto con convinzione viene accantonato per una ragione essenzialmente tattica. Non per una diversa idea di processo, né per un ripensamento teorico del modello accusatorio. Piuttosto per un calcolo di breve periodo: evitare che il governo ottenga un risultato politico, non incrinare equilibri interni, non irritare un settore della magistratura. La differenza con gli anni Settanta è tutta qui. Allora la politica si muoveva lungo direttrici ideologiche precise e gli elettori avevano piena coscienza della domanda loro posta. Oggi le ragioni della riforma sono ignorate, sepolte in una contesa litigiosa, autoreferenziale, spesso inconsapevole dei veri nodi costituzionali
In tutto ciò i media sembrano non avere alcuna reale volontà di informare correttamente, esaltando la contrapposizione partitica a discapito della comprensione del merito. La discussione è affidata a talk show popolati da opinionisti, politici, giornalisti e magistrati in una sterile dialettica dove è assente la volontà di chiarire il tema centrale del referendum. E in questa rappresentazione è assente la voce dei soggetti nel cui interesse la separazione delle carriere è stata da tempo invocata: i cittadini, ai quali, più che ai magistrati, interessa la migliore amministrazione della giustizia.
E insieme alla loro, manca sistematicamente la voce di chi è il primo interprete della tutela dei diritti, l’avvocatura, esclusa sistematicamente dai soliti siparietti che replicano copioni ormai logori. Continuare a discutere di giustizia senza l’avvocatura significa restituire un’immagine deformata della riforma e della sua urgenza: uno specchio in cui una delle parti essenziali della giurisdizione è oscurata dalle altre due. Solo rimettendo a fuoco tutte le parti in campo si può sperare di vedere, finalmente, dove passa la linea del diritto.


